Dopo essere stato rimandato a causa dell’emergenza sanitaria, questa mattina, è finalmente riuscito a partire il Festival 900G-Days, organizzato dal Polo del ‘900 in collaborazione con il Centro Studi Piero Gobetti. Siamo andati ad ascoltare la conferenza di apertura e subito si è avvertita un po’ di emozione, perché per molti dei giovani partecipanti si è trattato di uno dei primi eventi a cui poter assistere in presenza dopo il lock down: pur con tutti gli accorgimenti di sicurezza, abbiamo goduto della presenza di un pubblico e non solo di uno schermo.
Quattro minuti e trentatré
Il nome assegnato al talk d’apertura è “quattrominutietrentatré_ Let’s Talk” dal titolo del brano musicale di John Cage, caratterizzato dal fatto di presentarsi come 4 minuti e 33 secondi di silenzio. Perché questo titolo? Perché come John Cage aveva dato una nuova interpretazione alla musica, che lui considerava non come un insieme di strumenti che suonano, ma come la percezione di tutti i suoni e i rumori esterni che si avvertono in questi minuti di silenzio, così la grande domanda di quest’edizione del Festival è: qual è il cambiamento che il mondo culturale deve affrontare, alla luce dell’emergenza contro cui dobbiamo combattere? Ed è stato proprio questo il tema su cui si sono interrogati gli ospiti di questa apertura: Alessandro Bollo, direttore del Polo del ‘900, Bertram Niessen direttore di cheFare, Eugenio Cesaro, frontman degli Eugenio in Via di Gioia e lo street artist torinese Rebor, meglio conosciuto come Mister Pink.
Gli input sono stati numerosi e il tema è stato affrontato dal punto di vista di esponenti di arti diverse e di coloro che si occupano di progettare il mondo culturale su un piano istituzionale. Il moderatore dell’evento Lorenzo Ricca, voce di Radio Banda Larga, ha rivolto a tutti la stessa domanda e cioè come è stato vissuto il lock down e come il mondo culturale ha cercato e cercherà di rispondere all’emergenza.
L’incertezza del futuro
Il primo a rispondere è stato Bertrand Niessen, ancora in video collegamento da Milano. Il direttore di cheFare ha spiegato come la quarantena sia stata vissuta in modi molto diversi da ciascuno di noi, da chi ha vissuto un’eterna domenica a chi invece un eterno lunedì, lavorando senza orari e senza sosta. Chi progetta cultura è abituato a lavorare proiettando nel futuro la propria intenzione e le proprie idee. In questo momento tutto ciò non è possibile, perché viviamo in un tempo sospeso in cui l’incertezza sul futuro ricade sul lato sanitario, economico e sociale. Oggi è impossibile progettare un evento culturale perché non sappiamo che tempo sarà questo futuro, quali modalità potranno essere adottate e quali spazi occupati. Tuttavia, non si può vedere tutto nero e soprattutto c’è necessità di ripartire e pertanto la cultura deve costruire dei ponti e dotarsi di mezzi adeguati a rispondere a questa emergenza.
Cambiamenti a lungo termine
Eugenio ha raccontato che l’esperienza degli Eugenio in Via di Gioia è stata un insieme di semine e raccolte. In certi momenti si seminano idee e progetti che dopo qualche anno portano dei frutti. E così gli piace pensare anche al periodo della quarantena, in cui ha raccolto l’affetto dei fans che con lui cantavano dai balconi di fronte alla sua finestra o da casa, seguendolo sulle dirette Instagram. In quei giorni però, ha anche scritto nuovi brani e quindi seminato nuovi progetti. Eugenio continua con un augurio che si traduce in una necessità per il nostro mondo. Visto che ci ritroviamo in un momento in cui siamo chiamati a riprogettare parte della nostra esistenza, è auspicabile che i sistemi della cultura e della politica non si lascino divorare da questo tempo sospeso, ma si sforzino a pensare ai grandi temi che inevitabilmente condizioneranno il nostro avvenire, come quello ambientale. È doveroso non pensare solo a come ripartire in questi prossimi mesi, ma a provvedimenti che siano utili a lungo termine, come per esempio l’importanza di dotare le metropoli di giungle urbane in grado di contrastare l’incessante produzione di anidride carbonica.
Arte come speranza
Rebor, meglio conosciuto come Mister Pink ha raccontato come in quarantena il percorso che solitamente viene seguito dalla sua arte sia stato ribaltato. Di solito lui fa nascere in strada la sua opera (caratterizzata dal colore rosa), cercando di creare un contrasto che faccia parlare. La gente la nota e ne comincia a discutere sui social. L’ultima sua creazione invece ha seguito la strada inversa: si chiama “Alla ricerca di un riparo” e si tratta di una tenda rosa con una croce rossa. Visto che ricorda le tende usate per il triage di emergenza, l’artista ha deciso di non esporla in strada per evitare che la gente la ritenesse una struttura sanitaria e creasse ulteriore confusione in un momento in cui il panico era già il protagonista delle nostre giornate e, pertanto, ha deciso di esporla nel suo cortile e postarla subito sui social. La tenda quindi è stata conosciuta dal pubblico tramite il web e presto è diventata virale ed è stata ricondivisa nel mondo, come simbolo di speranza. Per Rebor il ruolo dell’artista deve essere quello di illuminare il suo pubblico che si trova inondato da un mare di dati e informazioni che spesso non riesce a distinguere.
Migrare nel tempo
Infine, Alessandro Bollo ha sottolineato che chi progetta cultura deve essere in grado di creare strumenti per rispondere e resistere al cambiamento. Ha usato una metafora presa dal mondo dell’antropologia, cioè quella della migrazione. Il concetto di migrazione è associato a uno spazio mentre in questo caso ci troviamo a cambiare tempo, come altre volte è capitato nel corso del Novecento: basti pensare all’ottobre del ’29, alla primavera del ’45, all’8 novembre ’89 o ancora, visto che oggi ricorre l’anniversario, all’11 settembre 2001. In questo tempo nuovo il mondo culturale dovrà prima di tutto cercare di capire che cosa è cambiato e rendersi conto del fatto che ci si muoverà in un ambiente in cui le disuguaglianze saranno ancora più marcate: la sfida sarà quella di mitigare queste differenze e offrire opportunità che siano accessibili a tutti. Bisognerà infine pensare al senso dei luoghi: lo stesso Polo del ‘900 era nato come spazio in cui i giovani potevano incontrarsi, conoscersi e muoversi, in cui la socialità era la protagonista. Adesso bisognerà pensare a come unire la necessità di adottare le misure di sicurezza con quella di instaurare relazioni interpersonali.
Spazio fisico o digitale?
E quest’ultimo pensiero ha portato all’ultima domanda lampo rivolta agli ospiti e cioè se si può fare a meno dello spazio fisico a favore del digitale. Tutti sono d’accordo sul fatto che lo spazio fisico sia imprescindibile, perché un evento in presenza è imprevedibile e il rapporto diretto con il pubblico è irrinunciabile. Tuttavia, non si può evitare il digitale e il mondo culturale non può permettersi di non sfruttarne le potenzialità. Rebor ha sottolineato come sia necessario che l’artista si tenga sempre pronto per rispondere alle esigenze della contemporaneità e che quindi il digitale è un potente mezzo da sfruttare. L’importante però è non rinunciare alla creatività e costruire contenuti e immagini che diano un messaggio chiaro che possa rimanere nel tempo e non un qualcosa di virale che viene divorato dalla mercificazione mediatica a suon di like, ma che presto viene dimenticato. Eugenio, raccomanda invece di non trasportare gli input del reale al digitale perché porterebbe a dei contenuti per forza di cose incompleti. La sfida invece è quella di creare un nuovo format che nasca direttamente in digitale, in nome di uno spirito di adattamento alle nuove esigenze.
Insomma, da questo dibattito è sorto che il mondo culturale non si è fermato, ma, consapevole delle difficoltà e dei cambiamenti a cui necessariamente andremo incontro, è pronto a combattere questa nuova sfida cercando di ristrutturarsi e di intraprendere percorsi che abbiano un effetto a lungo termine.