Non è insolito parlare di mafia e politica nel nostro paese. Sarebbe anche normale, dal momento che rappresentano due poli opposti dello Stato, due fazioni per natura contrapposte e antitetiche. Spesso però, come insegna la nostra storia, tra loro si crea un ponte pericoloso. Un filo diretto che congiunge lo stato e l’antistato, con ricadute devastanti per il cittadino e per la democrazia. Sarebbe pleonastico citare i grandi casi di corruzione o l’elenco dei comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. Non è nuovo neanche che i sospetti di collusione con la criminalità organizzata coinvolgano direttamente il governo. Dalla trattativa stato-mafia agli ambigui rapporti tra Berlusconi e Cosa Nostra: la “cultura del sospetto” è ormai parte integrante del mondo politico. Non ne è immune neanche l’attuale Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, accusato di aver negato un importante incarico al magistrato Nino Di Matteo in seguito alle pressioni di alcuni “boss”.
L’accusa
Il 3 maggio scorso, in un noto talk show televisivo, è andato in scena uno scambio di telefonate che ha gettato la politica italiana in una nuova e, al tempo stesso ordinaria, polemica. Nino Di Matteo, uno dei più importanti magistrati d’Italia, ha spiegato tramite telefono i motivi della sua mancata nomina a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sollevando una nube di sospetti sul Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Secondo la versione di Di Matteo, tra le cause ci sarebbero i presunti “malumori” di alcuni boss detenuti, che non avrebbero visto di buon occhio la sua nomina. Il magistrato ha spiegato come, nonostante gli fosse già stata comunicata la sua designazione, in un secondo momento il ministro si sarebbe tirato indietro, virando sulla nomina di Francesco Basentini (da poco dimessosi per le polemiche sulle rivolte e sulle scarcerazioni). Tra l’assegnazione dell’incarico e il successivo passo indietro ci sarebbero state le forti pressioni della criminalità organizzata, alle quali, secondo l’accusa, il ministro avrebbe ceduto. Ma prima di analizzare dettagliatamente la vicenda, occorre innanzitutto chiarire il motivo dei presunti malumori dei mafiosi e delle conseguenti pressioni.
“L’erede di Falcone”
Nato a Palermo nel 1961, Antonino Di Matteo è col tempo divenuto uno dei pm più importanti d’Italia, non solo per il lavoro svolto, ma anche per essere divenuto uno dei simboli recenti della lotta alla mafia. Fu lui ad indagare sulle stragi del 1992, in particolare sulle morti di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino e i rispettivi uomini della scorta. Fin dagli anni ’90 mostrò particolare interesse per i rapporti tra mafia e istituzioni, condividendo le teorie secondo cui la criminalità organizzata fosse a stretto contatto con la politica. Sospetti che sfociarono nell’inchiesta sulla trattativa stato-mafia, condotta dallo stesso Di Matteo, affiancato dai magistrati Tartaglia e Del Bene. Dal 1993 vive sotto scorta, affidatagli in seguito a varie minacce e ad un attentato fallito. Negli anni è stata addirittura rinforzata, fino a renderlo “l’uomo più scortato d’Italia”. Nel 2013 fecero scalpore le intercettazioni di Totò Riina, allora in carcere, che in una conversazione con un altro detenuto rivolse al magistrato gravi minacce. Disse infatti che avrebbe dovuto fare la “fine del tonno”, invocando un’esecuzione eclatante “come ai vecchi tempi”.
Di Matteo e la politica
Il rapporto di Di Matteo con la politica è dunque un rapporto complicato: diffidente e sospettoso, ma al tempo stesso estremamente vicino al mondo politico. Le sue dichiarazioni contro il ministro Bonafede sono state un fulmine a ciel sereno per il Movimento Cinque Stelle, che fin dalle sue origini ha puntato su valori come “onestà” e “trasparenza”. Proprio per tali valori il partito grillino aveva tentato di coinvolgere magistrati e simboli antimafia, tra cui lo stesso Nino Di Matteo. Il pm della trattativa incarnava l’uomo perfetto su cui puntare, simbolo di onestà, trasparenza e di quell’antipolitica su cui si è fondato il Movimento. Già nel 2017 si era parlato di lui come possibile Ministro della Giustizia nell’allora governo gialloverde, scelta poi ricaduta su Alfonso Bonafede.
La nomina mancata
A distanza di due anni Di Matteo ha deciso di rendere note le motivazioni della sua mancata nomina a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Secondo la sua versione, lo stesso Bonafede gli offrì l’incarico nel giugno 2018, garantendogli che se avesse voluto quel posto sarebbe stato suo. Dopo essersi preso due giorni di riflessione, il magistrato venne a sapere di reazioni negative da parte di potenti capimafia. Tuttavia, deciso ad accettare l’offerta, richiamò il ministro, ricevendo però un inatteso rifiuto da parte di quest’ultimo. Di fronte alle vaghe risposte e alle insufficienti motivazioni, nacque il sospetto che fossero stati proprio quei malumori a condizionare la scelta di Bonafede. Subito dopo le parole del magistrato, lo stesso Ministro della Giustizia è intervenuto telefonicamente in trasmissione per dichiararsi “esterrefatto per le gravi insinuazioni”, sostenendo inoltre si sia trattato solamente di una “percezione sbagliata”.
La mozione di sfiducia
Già bersagliato dall’opinione pubblica per la gestione del carcere negli ultimi tempi, il Ministro Bonafede si è ritrovato ad affrontare un’altra polemica. Questa volta decisamente inaspettata, proprio perché proveniente da una personalità ritenuta da sempre vicina al Movimento 5 Stelle. E anche decisamente scomoda, perché si fonda su un’accusa pesante che va ad insinuare rapporti tra il “partito dell’onestà” ed esponenti mafiosi. La gravità di tali parole, poi confermate nuovamente da Di Matteo, ha portato il Parlamento a votare il 20 maggio la mozione di sfiducia contro il Ministro della Giustizia. Pur essendo stata respinta, la votazione ha avuto una forte rilevanza, proprio perché ha coinvolto i valori fondanti del partito di Beppe Grillo. Bonafede in Senato ha voluto chiarire nuovamente che la polemica con Di Matteo si basa su un fraintendimento. Il Ministro avrebbe negato la sua nomina a capo del Dap, perché preferiva portarlo in via Arenula, ovvero alla sede del Ministero della Giustizia, in modo da garantirgli un ruolo decisamente più importante. Il dubbio resta e anche all’interno del Movimento crescono malumori. Di sicuro, un altro episodio si aggiunge alla lunga “lista dei sospetti” che caratterizza la politica nostrana.