Sapevate che alcuni dei più noti brand di abbigliamento si servono di metodi di produzione assolutamente non sostenibili a livello ambientale e sociale? Avete mai fatto caso ai materiali dei capi che indossiamo ogni giorno o alla loro provenienza geografica? Si faccia avanti chi di voi non ha nell’armadio almeno un paio di jeans o qualche maglione pagato cifre irrisorie, magari acquistato in negozi particolarmente economici o su un sito di eCommerce.
Il problema del fast-fashion è diventato cruciale, in particolar modo negli ultimi anni, grazie alla maggiore attenzione posta sulle tematiche ambientali ma soprattutto a seguito del crollo del Rana Plaza Factory Complex in Bangladesh nel 2013 in cui persero la vita 1133 lavoratori di un’industria tessile costretti a lavorare in condizioni disumane. I capi a basso prezzo che possiamo ammirare sui manichini di Zara o Primark, per la maggior parte realizzati da persone costrette a condizioni lavorative simili, sono assolutamente insostenibili sotto molteplici aspetti. Innanzitutto, a livello ambientale, poiché si stima che la maggior parte dei prodotti siano composti prevalentemente da petrolchimici e polimeri della plastica, mentre una percentuale esigua sarebbe realizzata in fibre di cotone, coltivato utilizzando enormi quantità di pesticidi che avvelenano le acque e compromettono la salute umana.
Il risultato? Qualità scarsissima e rilascio di coloranti, sbiancanti e svariate sostanze inquinanti nell’ambiente. Per non parlare delle tonnellate invendute che vengono bruciate, liberando gas tossici nell’atmosfera (non a caso l’industria della moda è la seconda più inquinante al mondo). Il costo sociale, poi, è altissimo; ci siamo mai chiesti come sia possibile avere prezzi così competitivi? Semplice, tagliando i costi di produzione e delocalizzando in Paesi in cui il salario medio si aggira intorno a pochi centesimi l’ora. Parliamo di sfruttamento di manodopera a basso costo, tra cui in primo piano donne e bambini, condizioni di lavoro non regolamentate con turni interminabili e utilizzo di materie prime non sottoposte a controlli.
Per disincentivare tutto ciò, è necessario informarsi maggiormente sulla provenienza di ciò che acquistiamo e, possibilmente, affidarsi a marchi o prodotti dotati di specifiche certificazioni (come la certificazione Registration, Evaluation, Authorisation and restriction of Chemicals sull’impiego di sostanze chimiche). In questo contesto è bene citare il più importante certificato di garanzia di prodotti tessili biologici realizzati nel rispetto di stringenti parametri ambientali e sociali, il GOTS – Global Organic Textile Standard -, che ha ottenuto un ampio riconoscimento a livello internazionale e può essere apposto a prodotti tessili realizzati con almeno il 70% di fibre naturali da agricoltura biologica.
Cosa si sta facendo e cosa possiamo fare noi per rendere la moda più sostenibile?
Inutile dirlo, la soluzione principale sarebbe quella di comprare meno; provare a rinunciare alla tentazione di acquistare un nuovo capo ogni qual volta troviamo qualcosa che attira la nostra attenzione. L’idea è infatti quella di dotarci di pochi capi, magari più costosi perché di maggiore qualità, ma indispensabili, duraturi e possibilmente realizzati in materiale ecologico o colorati con sostanze low impact.
In secondo luogo, diamo una chance all’usato (pre-loved per dirla all’inglese) prima di acquistare qualcosa di nuovo! I negozi di second hand stanno sperimentando una grande crescita e ricerche stimano che nei prossimi 5 anni questa raggiungerà percentuali come il 15-20%, grazie soprattutto al contributo dei millennials. Dare nuova vita a questi capi, pezzi spesso unici ed originali, contribuisce ad accrescere la cosiddetta economia circolare ed è una scelta ecosostenibile. Anche le grandi marche si sono rese conto del successo di tale mercato, aprendo store online per la vendita e lo scambio di abbigliamento second-hand. Vestiaire Collective, The RealReal e Rebelle rappresentano alcune piattaforme per l’usato firmato. Nel caso in cui le grandi marche non facciano per noi, è sempre possibile spulciare negli armadi di famiglia in cerca di pezzi da riciclare.
Infine, diffidare dei prezzi stracciati poiché spesso corrispondono a basso costo della manodopera, materiali scadenti e impatto ambientale negativo. Molti siti online di abbigliamento che siamo soliti utilizzare non rendono pubbliche le proprie politiche sociali e ambientali, ma indagare a fondo è necessario per essere consapevoli della derivazione di ciò che acquistiamo. Leggere le etichette è un primo passo per rendersi conto del prodotto con cui abbiamo a che fare, ispezionare provenienza, composizione ed eventualmente marchi certificati e registrati.
Il movimento della Slow Fashion, nato in contrapposizione al fenomeno del Fast Fashion, chiede al consumatore alcuni tra questi sforzi affinché questo partecipi attivamente al processo di riforma del modo di produzione. La risposta sta in una moda più etica e sostenibile, di qualità ma allo stesso tempo accessibile; c’è da sperare che i grandi colossi industriali prendano a cuore queste necessità e le facciano proprie, puntando sul miglioramento delle condizioni sociali e lavorative della manodopera e riducendo drasticamente l’impatto ambientale della propria produzione.