Recensione di “L’uomo che guarda” di Alberto Moravia.
Terz’ultimo libro scritto da Alberto Moravia prima della sua scomparsa, L’uomo che guarda, edito da Bompiani nel 1985, si può considerare come un’attenta, feroce e impietosa indagine sugli animi umani, i loro sentimenti e loro recondite passioni.
Protagonisti della storia sono il 35enne Dodo, ex sessantottino – l’“indifferente” degli anni ‘80 – suo padre, un anziano “barone” universitario e sua moglie, Silvia, donna passionale e sensuale.
Spinto dall’imperativo intellettuale di osservare per conoscere, Dodo spia ciò che accade attorno a sé con lo sguardo gelido e distaccato di uno scienziato: tuttavia, i sentimenti non possono non venire a galla.
Il libro si configura come una successione di eventi a sé stanti, di casi che si susseguono, di uomini che si guardano e si osservano, senza capire se stessi e gli altri.
Ora, prendiamo il caso di un giovane uomo – il nostro Dodo – seduto, una mattina, dirimpetto a un uomo anziano – il padre – che, ai suoi tempi, fu un dongiovanni, conquistatore di donne e cuori.
Prendiamo il caso che, da dove siede, il giovane scorga l’autoritario e austero volto dell’anziano, veda in quegli occhi e su quelle rughe una debolezza dovuta alla consapevolezza di una vita che vita non è più ma nemmeno già morte, fissa ostinatamente quel qualcosa che giace sotto il lenzuolo bianco e che per lui inconsciamente è il simbolo dell’incolmabile distanza che – meglio persino dei loro mestieri e delle loro abitudini – separa un padre da un figlio, un figlio dal padre.
Quel padre potrebbe essere l’unica ragione per cui il giovane stesso esiste, respira, vive, o almeno ci prova. E quel figlio non è altro che il ragazzo il quale in virtù dei valori del ’68, rifiutò l’eredità della madre, l’emblema del borghesismo italiano.
Prendiamo ora sempre lo stesso uomo, non più figlio ma marito, che sta dirimpetto a una donna – la moglie – ascolta quella parlare con la sua boccuccia, un tempo tanto rossa, ora con due labbra appassite come un fiorellino senza sole e calore.
Cosa gli dice quella donna? Ella, servendosi di lui come un amico, gli confessa apertamente la pericolosa e probabilmente effimera passione verso un altro uomo, un uomo che la fa sentire “diversa”, avendo quello un modo originale di fare l’amore.
E così il nostro uomo si ricorda di quando – tempi ormai lontani – era lui a fare sesso con sua moglie, e il volto di lei per lui non era altro che il candido e puro viso della Madonna: l’icona sacra che pregava, o almeno faceva finta di farlo, in chiesa, in ginocchio e con gli occhi chiusi, accanto a sua madre.
Ma il corpo e lo spirito di sua moglie non avevano niente a che fare con la Madonna, perché, nel resto, Silvia era tale quale a una prostituta, che offre il suo corpo per goderne personalmente.
Sua moglie Silvia è/era una donna avida di amore, e nella sua voglia si scorgeva il suo inconsapevole bisogno di essere madre: desiderio inappagabile e inappagato dal suo sterile essere donna.
Prendiamo non più il protagonista della storia, ma quel qualcosa che giace sotto il lenzuolo, prosperoso come una montagna, su cui lo sguardo del voyeur, attirato dall’esibizionismo naturalmente umano, non può non cadere. Penetriamo in quello che nessuno esplora, in un tabù. Supponiamo che sia proprio quello il mezzo con cui la donna riesce a sentirsi un’altra. Cosa potrebbe fare l’uomo? Forse portare la vita all’estremo sarebbe stata la cosa più umana.