Il gender gap indica il divario esistente tra uomini e donne in tanti ambiti diversi che impattano profondamente la vita di tutti i giorni e il suo svolgimento, come la salute, l’educazione, il lavoro, l’accesso alle attività economiche. Le cause possono dipendere da diverse motivi tra cui: fattori storico-culturali e l’area geografica.
Ogni anno il Word Economic Forum (WEP) pubblica una ricerca, il Global Gender Gap Report, che quantifica le disparità di genere nel mondo.
La parità di genere vale uno e questo è il suo valore massimo: quando è uno non esistono disparità di alcun tipo.
Come si può vedere dal grafico anche nei casi migliori non si arriva mai a uno, ma ci si avvina abbastanza; questo accade nei paesi scandinavi che dominano le prime quattro posizioni. Rispetto all’anno scorso il Rwanda ha perso tre posizioni arrivando al nono posto e la Spagna ne ha guadagnate addirittura ventuno arrivando all’ottavo.
Il grafico sottostante, invece, permette di individuare i miglioramenti e i peggioramenti tenendo conto di quattro criteri: economia (si considerano salari, partecipazione e leadership), salute (aspettative di vita e rapporto tra sessi alla nascita), istruzione (accesso all’istruzione elementare e superiore) e politica (rappresentanza).
Come si può vedere il divario tra uomini e donne nella salute e nell’istruzione è ormai quasi inesistente. Non si può dire lo stesso per la partecipazione economica e politica, che vedono le donne in una situazione di netto svantaggio.
In quest’articolo si concentreremo sulla parte economica dell’analisi andando a vedere quali sono le componenti del gender gap che influenzano la partecipazione all’economia.
Gender labor gap
Partiamo dal gender labor gap, cioè la differenza di genere nella partecipazione al mondo del lavoro: secondo l’International Labour Organization (ILO) a livello globale lavorano il 49% delle donne e il 75% degli uomini, quindi il gap è di 26 punti percentuali, ma in alcuni paesi può arrivare fino a 50: è il caso dei Paesi MENA (Middle East North Africa). Il gap resta comunque grande in alcuni Paesi asiatici e in America Latina, migliora poi nel sud-est asiatico, in Europa e nord America, ma il risultato migliore l’ottiene l’Africa sub-Sahariana.
Gender wage gap
Passiamo ora al gender wage gap, cioè: la differenza salariale fra uomini e donne lavoratori dipendenti a tutti i livelli a parità di mansione, misurato sul numero totale di lavoratori. È dunque direttamente dipendente dal gender labor gap.
Secondo le Nazioni Unite, nel mondo le donne guadagnano in media il 23% in meno rispetto agli uomini ovvero per ogni dollaro guadagnato da un uomo, una donna guadagna in media 77 centesimi.
Il calcolo del gender wage gap non è così semplice da eseguire perché dipende dal tipo di dataset che utilizza un Paese, cioè da quali sono le condizioni del mercato del lavoro. L’eliminazione del wage gap non è soltanto una questione etica, ma anche una di efficienza economica: se entro il 2025 si riducesse del 25% ci sarebbe un aumento del PIL mondiale di 5300 mld di dollari.
Le cause di questo fenomeno di differenza salariale sono molteplici, alcune in condivisione con il gender labor gap:
- Obsoleta interpretazione che riduce il fenomeno a un sostanziale disinteresse femminile per lavori impegnativi o competitivi a favore della cura di famiglia e tempo libero.
- I tassi di occupazione femminile sono bassi soprattutto a causa della scarsa condivisione del lavoro di cura tra i componenti della famiglia, con conseguenze negative sulle condizioni economiche e sulle prestazioni pensionistiche delle donne.
- A livello macro, secondo i dati ILO, i tassi di disuguaglianza salariale di genere sono maggiori nei paesi a basso reddito. Nell’insieme, i fattori di differenza salariale sono imputati alle retribuzioni sistematicamente inferiori nelle imprese altamente femminilizzate.
- Alle interruzioni dell’attività o alle riduzioni d’orario.
- Alle assunzioni e alle decisioni di promozione aziendale stereotipate. Il comportamento delle aziende contribuisce infatti alla diseguaglianza nel 30% dei casi, anche attraverso l’abuso di un asimmetrico potere esercitato sulle donne in fase di negoziazione (il cosiddetto bargaining power).
Strettamente collegato al gender wage e labor gap è il concetto di glass-ceiling index, ovvero il soffitto di cristallo, che si usa per indicare una situazione in cui l’avanzamento di carriera di una persona è ostacolato per motivi discriminatori come la razza o il sesso uniti a ostacoli di natura sociale, culturale, psicologica. Il soffitto di cristallo esiste in tutti i paesi, ma è meno percepito nei paesi scandinavi. L’Italia si trova al diciassettesimo posto, comunque prima della media dei Paesi OCSE, del Regno Unito e degli Stati Uniti.
Gender entrepreneurship gap
Per concludere la nostra analisi ci concentreremo ora sul gender entrepreneurship gap, cioè il divario di genere tra imprenditori.
Le cause possono essere:
- Autoesclusione: quando le donne stesse decidono di non entrare nel mercato.
- Difficoltà maggiori di accesso al credito.
- Mancanza di policy adeguata per la promozione del credito.
- Mancanza di educazione finanziaria.
Secondo un report dell’OCSE del 2017 le donne imprenditrici variavano dal 4,1% in Norvegia al 23% in Messico; il Cile ha registrato il gap minore 1,9% e la Turchia quello maggiore 14,5%; il gap è quasi nullo in Paesi come: Indonesia, Filippine, Vietnam, Messico e Brasile.
Una delle maggiori difficoltà che una donna affronta quando vuole aprire un’attività è l’accesso alla finanza, cioè la possibilità di avere prodotti (prestiti) e servizi (assicurazioni) finanziari ad un prezzo ragionevole. Questa difficoltà di accesso è dovuta da diversi fattori, ma esiste una soluzione che nel tempo si è rivelata molto efficace: la microfinanza.
Ci concentreremo sul microcredito, che fa parte della microfinanza, e consiste in un prestito di una ridotta somma di denaro a favore di persone singole o organizzazioni che non hanno i normali requisiti per accedere alle concessioni delle tradizionali linee di credito, per lo sviluppo di un’economia vitale.
Il microcredito è nato dalla Grameen Bank, fondata da Muhammad Yunus nel 1976 (premio Nobel per la pace del 2006), che forniva prestiti fondati sulla fiducia e non sulla solvibilità in paesi come l’India e il Bangladesh. Questo genere di prestiti ha funzionato molto bene negli anni, il tasso di recupero medio è del 98,96% e la maggior parte dei prestiti è rivolta alle donne.
Le donne infatti sono i principali destinatarie del microcredito: in media sono più affidabili nella restituzione dei prestiti. Anche se l’ammontare medio a loro fornito è minore rispetto agli uomini, preferiscono richiedere prestiti a medio-lungo termine e la loro attività è spesso necessaria per il sostentamento della famiglia.
Anche in Europa appare il gender entrepreneurship gap. Le donne rappresentano solo il 34,4% delle titolari d’azienda e il tasso di imprenditorialità per necessità è medio-alto 25%, ma arriva fino al 40% in alcuni Paesi. Il gender gap a livello di imprenditoria sociale è minore di quello dell’imprenditoria privata, questo perché le donne sono più sensibili a valori sociali e quando sono in posizione di leadership sono meno inclini alla discriminazione (anche se l’intra-gender gap si è allargato).
La loro distribuzione comunque varia da Nazione a Nazione, però secondo il Global Entrepreneurship Monitor il numero di imprenditrici sociali è direttamente proporzionale al PIL del Paese, vale esattamente l’opposto per le imprenditrici “classiche” dove il numero è maggiore quando il PIL è inferiore.
Gender gap in Italia
L’Italia per quanto riguarda il gender labor gap è quartultima, prima solo di Grecia, Malta e Cipro. Il tasso di occupazione femminile per le età compresa tra i 20-64 anni è pari al 49%, rispetto ad una media europea del 62%.
Il 30% delle madri che hanno un lavoro lo interrompono dopo la nascita del figlio. Un alto livello di istruzione riduce in modo significativo le differenze: è destinatario di un reddito dipendente il 76,8% delle donne laureate e l’81,5% dei maschi.
I settori dove la presenza femminile è maggiore sono quelli di cura della persona, turismo, tessile e assicurativo.
Per quanto riguarda il gender wage gap le cose vanno un po’ meglio nel nostro Paese. In una classifica europea, l’Italia si posiziona quinta su ventotto Stati. La differenza salariale è comunque presente: in media un uomo percepisce una retribuzione annua lorda di €29.891, mentre per una donna la cifra è di €27.890, vale a dire il 7,2% in meno, rispetto ad una media UE del 16,4%.
Perché, per il gender wage gap, abbiamo raggiunto questo risultato così positivo?
Il motivo è molto semplice, moltissimi dei lavori in Italia sono pubblici; anche se per legge non si possono fare distinzioni salariali in base al genere, nel settore privato è molto più facile trovare una scappatoia piuttosto che in quello pubblico.
In Italia il gap imprenditoriale si è ridotto negli anni, ma è ancora presente; a fine 2017 erano quasi diecimila in più le imprese femminili rispetto all’anno precedente. I settori in cui le donne sono più attive sono quello turistico e quello delle altre attività di servizi.
La parità di genere dipende da fattori culturali, storici, sociali e dal persistere di stereotipi di genere più o meno marcati, ma comunque ovunque presenti. Ci sono stati dei netti miglioramenti per quanto riguarda salute e istruzione, ma restano scarse la rappresentanza politica e la partecipazione economica. Anche i tre gender gap economici hanno visto un sostanziale, sebbene lento, miglioramento a partire dall’inizio del secolo.
La differenza di genere nell’economia non è solo moralmente ingiusta, ma è anche un fallimento del mercato poiché non viene massimizzata l’utilità attesa.