La più grande operazione dopo il maxi processo di Palermo. In poche parole il procuratore Nicola Gratteri evidenzia la rilevanza storica del blitz avvenuto nella notte tra il 18 e il 19 dicembre. La retata ha portato all’arresto di 334 persone tra politici, docenti, dirigenti, ma anche esponenti delle forze dell’ordine e massoni. In tutto sono 416 gli indagati, tra i quali spiccano nomi importanti: Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia, ma anche Pietro Giamborino e Nicola Adamo, entrambi esponenti politici di centrosinistra. Oltre 13.500 pagine inviate dai procuratori al Gip, circa 5 milioni di copie trasferite tramite tir blindati. 12 regioni coinvolte, anche estere, a conferma della dimensione universale assunta dalla ‘ndrangheta. Sono questi i numeri della bufera giudiziaria denominata “Rinascita-Scott” che si è abbattuta in Calabria.
Mai risveglio fu più dolce per i vibonesi. O meglio, potremmo definirlo agrodolce. Perchè se da un lato la retata ha portato in carcere quasi tutti i vertici della ‘ndrangheta locale, dall’altro si è avuta conferma di ciò che tutti temevano e, in parte, sapevano: la complicità e la sudditanza di una buona parte della società civile. Colpisce soprattutto la permeabilità della politica e delle istituzioni. Dalle indagini emerge il totale assoggettamento di alcuni esponenti politici, spesso in contatto diretto con i vertici dei clan.
Gli esponenti politici coinvolti
E’ il caso di Gianluca Callipo, sindaco di Pizzo, che avrebbe “contribuito al rafforzamento delle associazioni mafiose”, in particolare avrebbe aiutato a risolvere i “problemi” della famiglia Mazzotta, clan locale, in cambio di sostegno elettorale. Di simile caratura i reati contestati a Nicola Adamo, ex vicepresidente della regione, e Pietro Giamborino, già consigliere regionale. Il primo è accusato di “traffico di influenze”: avrebbe inoltre ricevuto una somma di 50.000 euro da un imprenditore per condizionare una decisione del Tar, con la mediazione di Giamborino. Lo stesso Giamborino è considerato formalmente affiliato al clan dei piscopisani, uno dei più potenti nella provincia vibonese.
Ben più gravi le accuse a Giancarlo Pittelli, ex parlamentare, ora iscritto al partito di Giorgia Meloni (che lo definì “un valore aggiunto”). Le indagini provano un rapporto diretto tra lui e Luigi Mancuso, a capo dell’omonimo clan e a detta di Pittelli stesso “il numero uno della Calabria insieme a Giuseppe Piromalli” (boss del clan di Gioia Tauro, ndr). Pittelli è stato definito dal procuratore Gratteri la figura chiave del rapporto tra ‘ndrangheta, politica ed anche massoneria. Secondo le dichiarazioni dei pentiti, oltre ad appartenere alla loggia del Goi, Grande Oriente d’Italia (dalla quale ora è stato sospeso), apparterrebbe ad un’altra loggia, segreta e potente, grazie alla quale tesseva legami fra i vertici della ‘ndrangheta e figure esterne, tra cui banchieri, imprenditori (anche dall’estero), oltre ad università e varie istituzioni. Pittelli, secondo Gratteri, era a completa disposizione dei clan e in particolare di Luigi Mancuso.
La famiglia Mancuso
E’ proprio Luigi Mancuso il vertice più alto, l’uomo a cui tutti ubbidivano e per il quale Pittelli “si sarebbe anche buttato da un ponte, se glielo avesse chiesto“. Proprio lui, secondo i pentiti, all’inizio degli anni ’90 avrebbe addirittura allontanato Cosa Nostra, rifiutandosi di partecipare alla strategia stragista proposta da Riina. La sua opposta “strategia del silenzio”, che consisteva nell’attirare meno attenzioni possibili, ha permesso alla ‘ndrangheta di diventare una delle mafie più potenti al mondo, l’unica presente in tutti e cinque i continenti. Così a lui toccava placare gli animi dei più giovani, tentare di sedare dal principio ogni tipo di guerra tra clan.
E dalla sua roccaforte di Limbadi tenere i rapporti con i principali clan calabresi, dai Piromalli e i De Stefano di Reggio agli Arena di Crotone. Ma il suo potere negli ultimi anni ha subito duri colpi. Il più importante, sicuramente, il primo pentimento di uno della “famiglia”, Emanuele Mancuso. L’operazione “Rinascita-Scott” ha dimostrato i tentativi dei parenti più stretti di fermare la sua collaborazione con la giustizia. In particolare sono state arrestate la madre e la zia, che avrebbero inizialmente offerto soldi e la possibilità di fuggire in Spagna, in seguito avrebbero addirittura minacciato di portargli via la figlia appena nata. Vicenda che evidenzia il ruolo della famiglia e, soprattutto, il ruolo delle donne. Nell’immaginario collettivo è spesso sottovalutata la funzione delle donne all’interno del clan , che al contrario assumono sempre più importanza nelle gerarchie.
La verità sugli omicidi
L’operazione ha fatto luce anche su diversi omicidi, come quello di Filippo Gangitano. Anch’egli mafioso, appartenente al clan Lo Bianco, nel 2002 sarebbe stato ucciso in quanto omosessuale. La ‘ndrina “rispondeva direttamente a San Luca e non poteva permettersi un omosessuale nella cosca“, secondo le parole del pentito Andrea Mantella. Non sono pochi gli elementi macabri emersi dalle indagini, che rendono bene l’idea della ‘ndrangheta quasi come una setta. Dal “battesimo” attraverso il taglio delle unghie ai riti di iniziazione e promozione. E’ stato trovato un pizzino in cui un affiliato viene promosso a “trequartino”, uno dei gradi di maggior rilievo. Nel pizzino è scritta inoltre la formula che caratterizza il rito: “A nome di Gasparre-Melchiorre-Baldassarre e Carlo Magno, che con il suo cavallo bianco distrussero tutti i nemici del suo regno, con una mantella sulle spalle e a fianco uno spadino formarono il Trequartino”.
In conclusione
Dall’operazione emergono soprattutto i tentacoli della ‘ndrangheta su tutta la struttura sociale. Lo confermano le posizioni di rilievo degli indagati: ufficiali dei carabinieri, comandanti della polizia municipale, poliziotti, docenti, dirigenti comunali, medici e avvocati. Emerge il controllo dei mafiosi su ogni istituzione e servizio, dall’ospedale cittadino alle onoranze funebri, addirittura infiltrazioni nel tribunale. Oltre alla ‘ndrangheta vera e propria, l’operazione ha volontariamente colpito ciò che consolidava il sistema ‘ndranghetistico: l’atteggiamento di coloro che ricoprendo ruoli pubblici tendono a sottomettersi all’amico, al potente, al mafioso di turno. Coloro che per interessi personali favoriscono il proliferare della criminalità organizzata, a discapito della parte onesta della società, che fa della legalità non un “ostacolo”, ma un modo di vivere.
Ma come già detto, colpisce soprattutto la permeabilità della politica e delle istituzioni. Clientelismo e servilismo hanno reso la Calabria incapace di reagire alla stretta della ‘ndrangheta, che al contrario se ne è servita per espandersi. L’assenza di una classe politica valida e competente ha dato ampio spazio a figure che assecondano i “portatori di voti”, come emerge dalle indagini. Che gli indagati siano esponenti sia di centrosinistra che di centrodestra ne è una prova: a prescindere dalle ideologie, la Calabria è vittima del sistema del dominus, colui che balla su quella sottile linea che nella regione demarca il confine tra ‘ndrangheta e politica.
Ma è vittima e allo stesso tempo complice. Perché se esiste un dominus, se esiste un sistema clientelare è perché una manodopera elettorale ne consente l’esistenza. Ed è pronta a soddisfarne le richieste abbandonando le proprie idee e la propria libertà. Ma oggi c’è un’alternativa. Lo dimostra la maxi operazione guidata da Gratteri. Lo dimostrano i 3000 carabinieri coinvolti. Lo dimostra la reazione dei vibonesi, che hanno mandato fiori e applaudito le forze dell’ordine. Lo dimostrano le 10.000 persone che il 21 Marzo di due anni fa sono scese in strada proprio a Vibo Valentia nella giornata nazionale per le vittime di mafia. Oggi c’è un’alternativa. E profuma di libertà.
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