Una lettera aperta di un giovane ragazzo che ci racconta sua esperienza con la didattica a distanza.
Buongiorno, grazie per il tempo che mi state dedicando. Ho 17 anni, frequento l’ITIS e andare a scuola mi piace. Sia chiaro, anch’io non vedo l’ora che suoni la campanella, uso il telefono in classe e cerco in tutti i modi di rimandare i miei doveri, ma in fondo la scuola è il mio lavoro, è la cosa a cui devo dedicare più tempo nella mia quotidianità, e quindi mi concentro sui lati positivi di frequentare un ambiente sociale così vario. Credo di essere completamente negato per la scrittura. Per una questione di principio, però, voglio sfogare nel più nobile dei modi la mia rabbia e frustrazione per il periodo che stiamo vivendo. Non aspettatevi, dunque, una composizione letteraria di particolare rilievo, ma solo una logorroica pioggia di parole di una persona che forse se la prende troppo ed è troppo emotiva, o forse (e lo spero) è giustamente offesa dal vedere la propria quotidianità stravolta in un modo così repentino. Spero di poter trovare qualcuno che la pensi come me.
So bene che il virus ci ha sconvolti e colti impreparati. Ne temo la pericolosità e proprio per questo ho sempre osservato attentamente le regole, dalla mascherina al rinunciare in buona parte alla vita sociale. A marzo, quando ci hanno chiusi in casa, ho fatto il possibile (da rappresentante di classe) per curare un buon rapporto con i professori e organizzare al meglio la “scuola d’emergenza”, convinto del fatto che una positiva relazione insegnanti/alunni è sufficiente a sanare un sistema scolastico con tanti problemi. Nel vuoto normativo, noi studenti siamo stati per la prima volta artefici del modo di fare scuola. Molte regole le abbiamo dettate noi, ci siamo impegnati per cercare i mezzi migliori per fare le videolezioni, e molti professori non hanno potuto fare altro che ascoltarci e incoraggiarci, potendo contare sul nostro prezioso aiuto, perché la tecnologia è un ambiente più affine a noi che a loro, e per questo eravamo in vantaggio.
Il rientro
Dopo un’estate di grandi discorsi sulla centralità della scuola, è stato riconosciuto come prioritario il nostro diritto di andare a scuola in presenza e in sicurezza. Ci sono state distribuite le mascherine (sorvoliamo sulla loro qualità), il disinfettante, si è investito per farci riprendere il nostro lavoro in tranquillità (tralasciando il vergognoso silenzio sui trasporti, per i quali non è stato fatto nulla. Per limitare i danni si sarebbero potute fare alcune cose, come scaglionare gli ingressi, sfruttare le linee ferroviarie garantendo treni negli orari degli studenti, favorire l’uso di presìdi di protezione individuale come le mascherine FFP2) e questo ritorno alla normalità ci ha ricordato quanto fosse stabilizzante avere un ambiente dove c’è sempre qualcosa da fare e dove il nostro tempo è ben speso, nonostante i vari pregiudizi retrogradi di cui le scuole sono oggetto.
La nuova DaD: un male necessario?
È bastato un giorno, però, a dimostrare che quella era solo propaganda, e che l’importanza attribuita all’istruzione dalle nostre istituzioni è ben poca. Da un giorno all’altro tutte le superiori hanno praticamente chiuso, adottando una DaD molto più “disastrosa” per noi studenti rispetto a quella dello scorso anno, perché ora dobbiamo farci andar bene orari da 5 ore al giorno di pesanti lezioni frontali davanti a un tablet (per chi ne ha uno, perché gli strumenti in comodato d’uso ce li scordiamo), a discapito anche del nostro rendimento (non è una questione di buona volontà). Ma la cosa peggiore, di cui mi irrita il non sentir parlare, è il trattamento riservato agli istituti tecnici e ai professionali. Nella mia regione, ad esempio, per fare andare in presenza le classi prime, tutte le altre classi hanno avuto una drastica riduzione del monte-ore. Le ore di laboratorio (e quelle di educazione fisica), da 11 che erano sono diventate 5 alla settimana, ma solo per metà classe. In termini assoluti la perdita è dei ¾ dell’attività laboratoriale, componente principale del nostro piano di studi. Non oso immaginare la situazione negli istituti professionali e nei cfp, dove le ore di laboratorio sono la componente principale della vita scolastica. Eppure in laboratorio c’è l’obbligo di indossare mascherina e visiera, e le distanze sono più che osservate. Non è di certo quello il problema sanitario.
Ciò mi porta a pensare che questa decisione manchi di buon senso, per vari motivi.
È una scelta inutilmente drastica perché, invece di salvare il più possibile, ha bloccato completamente un mondo che stava ripartendo non senza difficoltà. Se il problema più grave era quello dei trasporti, non sarebbe stato sufficiente fare in DaD il maggior numero di ore possibile e scaglionare gli orari mantenendo però in presenza le ore che in DaD non si possono fare? Non credete che gli autobus si sarebbero svuotati già così?
E poi, come si può non tener conto delle esigenze didattiche dei vari ordinamenti scolastici? In un liceo basterebbe fare un giorno in presenza per recuperare le ore di motoria e poter svolgere le verifiche scritte. In un istituto tecnico basterebbero due giorni settimanali (per tutta la classe però). In un professionale lo stesso (i cfp invece necessitano di più giorni).
Per non parlare del fatto che è stata imposta una norma così stringente anche in contesti territoriali dove non ce n’era bisogno, non così.
Perché, invece di prendere una decisione ponderata, si è deciso di farci perdere altro tempo, oltre a quello perso l’anno scorso? E soprattutto, perché siamo lasciati senza regole? Come le facciamo le verifiche, vogliamo perdere un altro anno scolastico? Non è giusto, è una scelta frettolosamente imposta dall’alto che invece di proteggere il nostro diritto all’istruzione ci mette nella condizione di non poter lavorare in modo decente. Svaluta l’importanza del nostro lavoro come se non fosse, tra l’altro, un nostro fondamentale diritto. E se a marzo c’era la scusa dell’emergenza, adesso non vale più, perché è da mesi che si paventa la seconda ondata e nessuno si è preoccupato di pensare ad un piano B che garantisse il diritto al lavoro a studenti e insegnanti nel peggiore degli scenari.
In conclusione
È questo che mi dà rabbia, il dover sottostare a regole del genere, che non tengono conto del mio bisogno di frequentare in maniera seria e organizzata la scuola e sulla cui impellenza in tutte le scuole d’Italia ci sono vari dubbi. Iniziamo a farci sentire, non per sperare di ottenere chissà che cosa, ma per vederci riconosciuto il nostro diritto di vivere la scuola in maniera seria e dignitosa, nel rispetto della grave situazione segnata dal virus ma con buon senso, perché quello che stiamo vivendo e vivremo è tutto fuorché di buonsenso.
Cosa fare? Nulla che possa far degenerare la situazione epidemiologica. Né una rivoluzione. Propongo di boicottare l’educazione civica, sarebbe un segnale importantissimo. Non accettiamo lezioni di civiltà e di cultura istituzionale da chi in un giorno ha creato una valanga di problemi a un mondo che ne ha già a sufficienza. Ognuno faccia il suo lavoro e lo faccia bene. La scuola è una cosa seria. Altre idee?
Spero di non avervi fatto perdere tempo, ma di aver aperto un dibattito che è giusto affrontare.
E tu? Come stai vivendo la didattica a distanza? Raccontacelo, inviando una mail a [email protected] È un tema che ci sta molto a cuore, a cui abbiamo dedicato anche un episodio del nostro podcast. Ascolta qui i podcast di WeGather!