Nonostante le molte criticità dovute alla crisi economica e ad un’amministrazione alquanto obsoleta, il nostro sistema scolastico si distingue da molti altri per essere quasi completamente gratuito fino alle superiori. E proprio le superiori, pur essendo sotto molti aspetti carenti (specialmente a causa dei molti tagli al bilancio), sono comunque in grado di offrire un’ampia scelta ai giovani studenti, articolata in scuole con un’offerta prettamente teorica e in scuole che offrono anche una formazione pratica, attraverso il ricco monte-ore di laboratorio. E proprio l’ampia presenza di istituti tecnici e professionali, per ovvi motivi molto più costosi rispetto ai licei, è la cartina al tornasole della qualità delle nostre scuole pubbliche, che hanno poco da invidiare a quelle private ed estere.
Al di là dell’ampia offerta gratuita, però, ci sono le cosiddette attività extracurricolari, ovvero opportunità formative facoltative, generalmente promosse dalle istituzioni scolastiche, che però sono in larga maggioranza offerte da privati e hanno un costo anche elevato a carico delle famiglie.
Sia chiaro, viviamo in un sistema dove vige il liberalismo economico: l’istruzione non è una competenza esclusiva dello Stato, è normale e giusto che anche i privati scendano in campo con le loro proposte, e lo Stato non può assolutamente disincentivarli. Allo stesso tempo, però, si deve prendere atto del fatto che alcune di queste attività “extra” hanno nel tempo acquisito un peso così rilevante da indurre le scuole a raccomandarle fortemente, e non rientrano più nella definizione di “extra”.
Mi riferisco in particolare alle note certificazioni informatiche e linguistiche, offerte da società molto autorevoli e riconosciute anche all’estero. Il conseguimento di questi titoli è fortemente promosso e raccomandato dalle scuole, perché essi hanno un peso determinante nei concorsi pubblici e, non essendo troppo inflazionati, averli nel curriculum è un bel vantaggio.
Pertanto non stiamo più parlando di attività “extra” perché, nel 2020, possedere buone “skills” linguistiche e informatiche è di primaria importanza per un giovane, alla pari dell’avere buoni voti nelle discipline di indirizzo. Tali competenze rientrano ormai nelle conoscenze di base che tutti dovrebbero possedere, e per questo sono presenti nei monte-ore della quasi totalità delle scuole. La maggior parte degli studenti deve perciò seguire le lezioni, studiare gli argomenti, comprare i libri, prendere buoni voti in queste materie, il tutto per avere un voto in pagella che non ha nessun valore fuori dalla scuola, perché passa in secondo piano rispetto alle certificazioni a pagamento.
Perché allora il livello delle competenze informatiche e linguistiche raggiunto non viene certificato direttamente nel diploma di maturità, così come viene fatto per le altre materie, coerentemente con la definizione di titolo di studio? È possibile che un titolo di studio emesso dallo Stato sia meno autorevole di certificati elargiti da privati?
Non è l’autorevolezza a mancare, è l’avanguardia. Laddove vi era una mancanza dello Stato si sono inseriti i privati, e questo, invece di spingere lo stato a colmare quelle mancanze, lo ha portato ad accettarle e anzi a renderle parte integrante delle attività scolastiche. Va da sé che ne è derivato un vero e proprio business.
La scuola, però, non può essere un business. Dev’essere un servizio pubblico, accessibile e di qualità, massima espressione del principio di uguaglianza. Accettare queste “offerte” proibitive rischia di dar vita ad un precedente profondamente sbagliato: il progressivo abbandono dell’idea di istruzione pubblica. Ma del resto, se nessuno pagasse per queste cose, o meglio se le scuole smettessero di gonfiarle così tanto, esse perderebbero il loro valore, e la scuola tornerebbe ad essere quel bene di tutti dove non ci sono studenti più o meno abbienti, ma studenti più o meno meritevoli.
(Come incentivo, conseguire questi titoli permette di ottenere dei crediti formativi alle superiori. A onor del vero, però, va ricordato che secondo l’ultima riforma dell’esame di maturità, i 40 crediti dipendono quasi del tutto dalla media dei voti, e la somma di tutte le attività extra può valere al massimo un punto per anno, sempre che non venga in partenza effettuato un lieve aggiustamento alla media.)