The Social Dilemma, the NSA files, Cambridge Analytica: che cos’hanno in comune? Che nonostante gli scandali, la maggior parte degli utenti continuerà a rimanere connessa.
A gennaio 2020 Netflix ha rilasciato sulla propria piattaforma un documentario dal titolo The Social Dilemma. Documentario prodotto da Netflix stesso, che negli ultimi mesi ha fatto parecchio parlare di sé.
The Social Dilemma
The Social Dilemma nasce con l’intenzione di dare la parola ad una manciata delle menti e degli ingegneri che negli ultimi decenni hanno contribuito maggiormente ad influenzare e cambiare le nostre vite ed abitudini, tramite il loro contributo ai social network più utilizzati degli ultimi dieci anni.
In poche parole è un documentario nel quale alcuni tech guys – ex dipendenti di Google, Facebook, Instagram, Pinterest, etc. – spiegano i side effects, gli effetti collaterali (e per certi versi devastanti), che le loro creazioni hanno avuto sulla nostra società e sulle democrazie occidentali. Ma non è solo un documentario.
Un docu-drama
Oltre alle interviste e agli intervistati, è infatti presente una storia fittizia, costruita a tavolino, che accompagna le classiche scene da documentario, per dar man forte alle parole degli intervistati. La sua funzione è infatti quella di fornire degli esempi pratici, in cui l’audience possa rispecchiarsi, di come i social network ed internet abbiano un impatto sulla vita di una normale famiglia statunitense.
Confronto tra generazioni
I protagonisti di questa vicenda sono infatti tutti di età diverse: dalla mamma boomer, che cerca di limitare lo screentime ed il tempo che la sua famiglia passa su internet, alla figlia minore, tik-toker e gen Z, appartenente alla generazione di coloro che sono cresciuti sui social media. C’è poi anche un fratello maggiore che così come lei vive le sue relazioni sociali ed insicurezze costantemente attaccato allo schermo del cellulare.
L’unica che sembra “salvarsi” dalla dipendenza da questi social media è la sorella più grande, classificabile come millennial. Quest’ultima sembra avere uno sguardo più critico nei confronti di questi media, rispetto ai due fratelli più piccoli. A differenza della madre, non manca quindi di ingenuità nei confronti di come i giovani utilizzino queste piattaforme.
Coinvolgimento, crescita e pubblicità
Ci sono poi anche le personificazioni degli strumenti stessi dei social media, rispettivamente engagement, growth e advertising (coinvolgmento, crescità e pubblicità), che aiutano lo spettatore a capire in maniera semplice e pratica il funzionamento e gli obiettivi degli algoritmi che governano il funzionamento delle piattaforme social.
Un linguaggio semplice per arrivare a tutti
Tramite questi stratagemmi, The Social Dilemma, risulta quindi un documentario ricco, che rende semplice e chiaro il messaggio che questi tech guys vogliono trasmettere, senza cadere in tecnicismi, ma mantenendo sempre un linguaggio e un tipo di comunicazione molto semplice, comprensibile anche dai più giovani e dai meno esperti (boomer) di tecnologia.
Edward Snowden & the NSA files
Nel 2016, a seguito del “caso Snowden” era uscito un film dal titolo Snowden nel quale veniva raccontata la storia di un ex dipendente della CIA, Edward Snowden, e di come a seguito di alcune sue riflessioni sulla legittimità dell’operato della NSA (National Security Agency), aveva deciso nel 2013 di comunicare alcune informazioni segrete alla stampa.
La vicenda è oggi meglio conosciuta come The NSA files e riguarda la questione della privacy.
La privacy non esiste
Tramite le sue rivelazioni, Snowden rivelò infatti di come la NSA avesse la possibilità di accedere ai dispositivi elettronici degli utenti, accendendoli, spegnendoli, attivando e disattivando il microfono, navigando tra i file e le chat private degli utenti, senza che essi ne fossero a conoscenza.
Non appena queste rivelazioni uscirono sulle prime pagine del The Washington Post e del The Guardian, fu inevitabile che tra la popolazione che venne a sapere di queste notizie si generò un po’ di scalpore. Ci fu chi si indignò, chi si sentì tradito, spiato, pugnalato alle spalle. Chi invece si spaventò e arrivò addirittura a coprire la webcam del proprio portatile con del nastro adesivo per la paura di essere spiato.
Fu infatti quasi come se Snowden fosse arrivato a dire alla popolazione “guardate che il Grande Fratello vi sta davvero guardando”, e non fu una sensazione piacevole. Ma fu anche uno scandalo che, nonostante la portata, si sgonfiò abbastanza in fretta tra la popolazione.
“Ma che cosa ci cambia?”
Snowden comunicò queste informazioni top-secret alla stampa del 2013. Il film uscì nel 2016. Oggi la maggior parte della popolazione continua ad utilizzare uno smartphone e a navigare su internet.
Infatti, l’obiettivo principale di Snowden non fu quello di fare in modo che le persone smettessero di utilizzare la tecnologia. Sarebbe stato impossibile visti gli aspetti positivi, l’utilità e la dipendenza che oggi abbiamo da essa.
Più che altro, l’intento di Snowden fu quello di rendere la popolazione consapevole di come il dispositivo che tengono tra le mani potesse essere usato da altri.
“Non ci cambia nulla, ma…”
Due casi paralleli
Il caso Snowden e The Social Dilemma sono due casi strettamente paralleli. Snowden parlava di come la nostra privacy non esistesse per davvero su internet, The Social Dilemma ci racconta invece di come gli algoritmi dei social network utilizzino i nostri dati privati.
« If you are not paying for the product, then you are the product. »
L’intero documentario si potrebbe riassumere con questa singola citazione. Se non stai pagando per il prodotto, allora tu sei il prodotto. Infatti è proprio questo il fulcro cardine di The Social Dilemma. Ci sono algoritmi che raccolgono informazioni, schedando i profili degli utenti. Poi, grazie alle informazioni raccolte, altri algoritmi indirizzano i contenuti e le pubblicità in base agli interessi degli utenti stessi.
Il vero problema qual è?
Gli utenti all’oscuro di tutto
Il problema è che tutto questo, fino a poco tempo fa, avveniva all’insaputa della maggior parte degli utenti. “Ti conoscono meglio ti quanto tu possa conoscere te stesso.” Sanno che app usi, quanto tempo le usi, cosa guardi, quanto tempo ti soffermi su determinati post. Sanno capire quando sei triste, quando sei arrabbiato, quando sei felice. E il problema è che gli algoritmi utilizzano queste informazioni per scopi di marketing, senza distinguere cosa possa essere etico e cosa no.
Studiati per creare dipendenza
Come le tre personificazioni mostrate nel documentario, l’obiettivo dei social network è che gli utenti passino quanto più tempo possibile attaccati agli schermi (engagement), in modo da aumentare le condivisioni ed i contenuti visualizzati (growth), così da poter massimizzare i profitti tramite la pubblicità (advertising). All’algoritmo non interessa se un ragazzino passi (e perda) ore e ore attaccato al telefono, perdendosi tra i più svariati contenuti, venendo costantemente targhettato dalla pubblicità.
Il grosso problema di questi media è che sono quindi creati a tavolino per creare dipendenza, per fare in modo che gli utenti passino quanto più tempo possibile sulle piattaforme. E non c’è bisogno di argomentare perché tutto ciò non sia sano. Gli esseri umani sono fatti per vivere nel mondo reale, non per perdersi dentro ad uno schermo.
Un rischio per i più piccoli
Sta anche al buon senso di ognuno di noi limitare il nostro screen time, ma quando si tratta dei minori? Di ragazzini delle medie, o ancor peggio, dei bambini delle elementari? Loro non conoscono limiti. E se già un adulto talvolta cade nella trappola delle notifiche, allora come ci si può aspettare che un bambino possa utilizzare questi strumenti con cognizione?
Un problema per la democrazia
Un altro punto cardine del documentario è come il funzionamento dei social network possa essere dannoso per le democrazie. Una fake news si propaga sei volte più velocemente di una notizia vera, viene detto nel documentario.
« A fake news travels six time faster than the truth. »
A questo si aggiunge il problema della polarizzazione dell’opinione pubblica, in quanto gli algoritmi suggeriscono all’utente contenuti che potrebbero interessare all’utente, sulla base di ciò che l’utente ha già guardato. Ad esempio: se seguo Trump, e metto i like ai suoi post, l’algoritmo inizierà ad identificarmi come fan di Trump, ed inizierà a propormi contenuti ai quali i followers di Trump sono interessati.
Ma il problema anche qui quale sarebbe? Che inizierei a vedere solo una faccia della medaglia. Inizierei a vedere solo più post a favore di Trump ed il dibattito pubblico si ridurrebbe alla mera sensazione di essere circondato da persone ed opinioni tutte uguali e a supporto della mia, dove tanti la pensano come me, e pochi sono (gli stolti) all’opposizione.
Cambridge Analytica
Lo scandalo di Cambridge Analytica è l’epigenesi di questo principio. Si tratta di un’azienda di marketing, nata nel 2014, con lo scopo di utilizzare i dati degli utenti presenti online, per creare contenuti mirati.
Nel 2016 Robert Mercer, un investitore della campagna elettorale di Trump, investì più di 15 milioni di dollari in Cambridge Analytica e pare che i dati raccolti da Facebook riguardo i profili dei propri utenti, siano stati utilizzati per targhettare potenziali gruppi di elettori, bersagliandoli con messaggi mirati volti ad influenzare la loro opinione politica. Cambridge Analytica ha sempre rinnegato le accuse.
Il problema di nuovo? Gli utenti non erano a conoscenza di come i propri dati fossero utilizzati, ma soprattutto, gli utenti non erano a conoscenza che dati privati fossero utilizzati da terzi per la creazione di contenuti subliminali, propagandistici e mirati.
Ma soprattutto, ad oggi è ancora acceso il dibattito sulla legittimità dell’elezione di Trump. Non ci fossero stati i social media, non ci fosse stato Twitter o Facebook, non ci fosse stata Cambridge Analytica, avrebbe vinto lo stesso? Senza cavalcare l’onda dei social network avrebbe raggiunto lo stesso successo che (soprattutto grazie a queste piattaforme) ha raggiunto oggi?
Vento di cambiamento
Nonostante gli effetti collaterali che i social network ed internet possono avere sulla nostra società, eliminarli non è un’opzione.
Sbarazzarsene è impossibile (e sconsigliabile)
La loro utilità è incontestabile, da Google Maps che ci fa da bussola ovunque noi ci troviamo, a Facebook, Instagram e Whatsapp che aiutano amici e familiari lontani a tenersi in contatto (soprattutto in tempi come questi, in questo 2020 un po’ anomalo).
Se usati bene dimostrano infatti di essere degli strumenti formidabili. In Cina, pare che sia stata proprio la tecnologia ad avere un impatto fondamentale per il tracciamento ed il contenimento della diffusione del virus.
Ma soprattutto, volessimo eliminare internet dalla nostra vita, non faremmo altro che complicarcela. Internet è infatti parte integrante del nostro sistema, tagliarlo completamente fuori dalla nostra vita significherebbe in un certo senso tagliarsi in parte fuori dal sistema. Tutto, dalle università, alle banche, dai registri elettronici, allo shopping, tutto va nella direzione di essere online.
Per quanto possiamo quindi rifiutare l’idea che i nostri dati vengano raccolti ed utilizzati dalle piattaforme online, è innegabile che siamo comunque fortemente dipendenti da esse.
Proprio per questa ragione un documentario The Social Dilemma – o un film come Snowden – può spaventarci e può preoccuparci, ma fino ad un certo punto. Perché in ogni caso, nel giro di massimo qualche ora, torneremo sempre comunque nuovamente connessi ad internet tramite qualche piattaforma social. Anche solo per mandare un messaggio su Whatsapp agli amici dicendo di aver visto questo documentario.
Tecnologia “a misura d’uomo”
Secondo Tristan Harris, uno dei tanti tech guys comparsi nel documentario di Netflix, ex dipendente di Google e adesso co-fondatore del Centre for Humane Technology, il problema dei social networks e di internet non andrebbe affrontato cercando di eliminarli. Come abbiamo detto qualche riga più indietro sarebbe impossibile. Bensì, il problema andrebbe affrontato cercando di creare tecnologia umana, ovvero a misura d’uomo.
« We need radically reimagined technology infrastructure and business models that actually align with humanity’s best interests. »
“Abbiamo bisogno di infrastrutture tecnologiche radicalmente re-immaginate e modelli di business che si allineino veramente con i migliori interessi per l’umanità.” Questo è l’obiettivo di chi vuole rendere la tecnologia a misura d’uomo. Una tecnologia che non crei profitti sul malessere degli utenti, puntando a tenerli il più connessi possibile, indipendentemente dal genere di contenuti che consumano.
Tecnologia etica
« This attention extraction economy is accelerating the mass degradation of our collective capacity to solve global threats, from pandemics to inequality to climate change. »
“Questa economia estrattrice di attenzione sta accelerando la degradazione di massa della nostra capacità collettiva di risolvere minacce globali, dalle pandemie, all’ineguaglianza, al cambiamento climatico.” L’obiettivo è dunque una nuova forma di tecnologia a base etica, che tenga conto dei problemi dell’umanità cercando di arginarli, non di lucrare sopra di essi.
Il paradosso…
Paradossale è come si cerchi di combattere la tecnologia creando altra tecnologia. Perché chi può garantire che le nuove tecnologia volte a migliorare quelle passate non presentino anch’esse degli effetti collaterali? Soprattutto perché gli obiettivi che centri come quello di Humane Technology non sono facili da raggiungere, e nemmeno scontati.
Come si può infatti rendere una tecnologia etica, senza però prima definire l’etica? Avranno bisogno di crearne una, scrivendo algoritmi che rispettino i principi che i programmatori inseriranno in questi nuovi programmi. Ma non c’è nessuna, proprio nessuna garanzia, che questi programmi siano solamente soluzioni, e non nuovi problemi.
… del progresso
D’altro canto il progresso tecnologico funziona così da millenni: correndo dei rischi. Nessuno potrà mai sapere tutti gli effetti di una nuova invenzione, finché essa non sarà messa in atto.
Come spiegano nel documentario per gli inventori del tasto del “mi piace” su Facebook: volevano creare qualcosa per diffondere positività e supporto nei confronti degli amici. Mai si sarebbero aspettati che milioni di teenagers (ma anche adulti) avrebbero sviluppato problemi di autostima validando la loro opinione sulla base del numero di likes.
Il progresso è un rischio, un rischio che bisogna correre. Perché ormai siamo in ballo e abbiamo poca scelta, se non quella di ballare.
Un ultimatum all’attuale funzionamento dei social network e dei media?
Oggi si possiede una conoscenza dei rischi e dei meccanismi di internet molto maggiore rispetto a cinque, dieci, vent’anni fa. E convivere con essi non è più un’opzione vista la direzione in cui la polarizzazione dell’opinione pubblica ed il degrado mediatico stanno portando la nostra società.
È un gatto che si morde la coda, ma il cambiamento da qualche parte dovrà pur iniziare. E il primo passo, forse, è proprio quello di accorgersi che presto si potrebbe arrivare a toccare il fondo. Sempre che non ci siamo già seduti sopra.