È notizia recente la polemica scoppiata in Piemonte sulla pillola abortiva Ru486 in seguito alla delibera di metà settembre dell’assessore regionale membro di Fratelli d’Italia Maurizio Marrone. Si chiedeva infatti di interrompere sul territorio piemontese la somministrazione dei farmaci abortivi mifepristone e prostaglandine direttamente nei consultori e di vietare l’aborto farmacologico in Day Hospital. La delibera era apertamente contraria alle ultime linee guida del Ministero della Salute, che hanno abolito l’obbligo di ricovero ed esteso a nove settimane il termine entro cui effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza tramite la Ru486. Dopo un dibattito durato qualche settimana, il 2 Ottobre la Regione ha inviato una circolare di chiarimento a tutte le Asl e Aso piemontesi, rendendo l’aborto farmacologico possibile solamente in ambito ospedaliero e non direttamente nei consultori. La possibilità di aborto in Day Hospital è stata però mantenuta, affidando le modalità di ricovero alle scelte del medico e della direzione sanitaria. Il documento prevede anche l’attivazione all’interno degli ospedali piemontesi di sportelli informativi gestiti da associazioni di volontariato pro-vita che si occuperanno di sostenere le maternità difficili dopo la nascita.
Ma cosa vuol dire esattamente “aborto farmacologico”? Come funziona in Italia l’interruzione di gravidanza e tramite quali modalità si effettua? Facciamo un po’ di chiarezza.
L’aborto spontaneo
In realtà, parlare di “aborto” in medicina significa innanzitutto parlare di “aborto spontaneo”, ovvero l’interruzione spontanea della gravidanza prima della 23esima settimana di gestazione. Si tratta del modo naturale che il corpo umano utilizza per eliminare il prodotto del concepimento, qualora questo presenti problematiche che per il nostro organismo non sono risolvibili. È una complicazione molto frequente, che colpisce dall’8 al 35 per cento delle gravidanze totali, e può essere un fenomeno occasionale, ma anche ripetuto o ricorrente. Le cause sono tantissime e sovente non vengono nemmeno scoperte. I fattori di rischio più diffusi sono l’età avanzata dei genitori, l’esposizione al fumo, all’alcool e ad altre sostanze nocive, la tossicodipendenza, l’obesità, il diabete, oppure malformazioni dell’utero, trombofilie, anomalie genetiche o immunologiche che compromettono la vita del feto.
Le interruzioni di gravidanza
Le “interruzioni di gravidanza” sono invece ascrivibili alla categoria degli “aborti indotti”, ovvero non causati da fattori naturali. Sono regolate nel nostro paese dalla legge 194/78, attivata dopo un referendum popolare nel 1978. La normativa stabilisce che una donna può interrompere la gravidanza entro 90 giorni dal primo giorno dell’ultima mestruazione, qualora questa comprometta la salute psico-fisica della donna o sia ostacolata da condizioni socio-economiche o famigliari avverse. Quando si parla di “interruzione volontaria di gravidanza” (IVG) di solito si fa riferimento a questo tipo di intervento, chiamato anche “aborto volontario o elettivo”.
L’interruzione di gravidanza viene però garantita anche oltre il 90° giorno, ma non oltre i 180 giorni e solo in caso di gravidanze che mettano in serio pericolo la vita o la salute della donna o che portino allo sviluppo di un feto con malformazioni o gravi patologie. In questo caso, si parla di “aborto terapeutico”, effettuato a causa di problematiche mediche.
La donna deve effettuare personalmente la richiesta di IVG e seguire un iter prestabilito dalla legge, che in ogni caso ha come scopo principale la “tutela sociale della maternità” e la prevenzione dell’aborto attraverso la rete dei consultori famigliari. La legge parte infatti dall’affermazione che l’IVG non è, né deve essere, un metodo anticoncezionale.

Un corteo degli anni ’70 in favore dell’aborto
L’aborto terapeutico
È consentito fino ai 180 giorni di età gestazionale, quando la gravidanza compromette seriamente la vita e la salute fisica e psichica della donna. Di solito l’aborto terapeutico non è voluto e causa molto dolore, dal momento che la donna è costretta a perdere il bambino per non mettere in pericolo la propria vita o per evitare che il bambino nasca con gravi patologie. Tra le cause principali di un aborto terapeutico ci sono le emorragie dovute al distacco della placenta, la rottura prematura del sacco amniotico che provoca un’infezione generalizzata, alcune malformazioni del feto o altre gravi problematiche della gravidanza messe in luce dall’ecografia. Si tratta di un intervento chirurgico, effettuato secondo varie modalità, a seconda delle settimane di gravidanza e delle condizioni di salute della donna. Tendenzialmente entro le 15/16 settimane si ricorre allo svuotamento dell’utero sotto anestesia generale, tramite raschiamento o aspirazione. Dopo le 16 settimane invece, in seguito all’assunzione di farmaci che provocano il decesso del feto, la donna viene fatta partorire, inducendo un travaglio di tipo abortivo.
L’interruzione volontaria di gravidanza (IVG)
L’interruzione di gravidanza è definita volontaria o elettiva quando viene richiesta dalla donna anche per ragioni non mediche, entro i 90 giorni di età gestazionale. Può essere effettuata tramite un’operazione chirurgica o tramite l’assunzione di specifici farmaci.
L’interruzione volontaria di gravidanza tramite metodo chirurgico
Anche se il metodo farmacologico è sempre più diffuso, l’interruzione di gravidanza attraverso il metodo chirurgico è ancora molto praticata e può essere effettuata presso le strutture pubbliche del Servizio Sanitario Nazionale e le strutture private convenzionate e autorizzate dalle Regioni. Consiste nello svuotamento mediante aspirazione del contenuto uterino, effettuato tendenzialmente in anestesia generale.
L’interruzione volontaria di gravidanza tramite metodo farmacologico
Con “aborto farmacologico” si intende invece una procedura medica, distinta in più fasi, che si basa sull’assunzione di due principi attivi diversi a distanza di 48 ore l’uno dall’altro e che può svolgersi entro le nove settimane di gravidanza. Il primo farmaco è il mifepristone (meglio conosciuto col nome di Ru486) che agisce sui recettori del progesterone, l’ormone necessario per il mantenimento della gravidanza, facendo così cessare la vitalità dell’embrione, mentre il secondo appartiene al gruppo delle prostaglandine e determina l’espulsione dell’embrione dall’utero.
Le novità di agosto sull’interruzione di gravidanza
Il ministero della Salute, con l’approvazione del Consiglio Superiore della Sanità, il 12 agosto 2020 ha aggiornato le linee di indirizzo sull’IVG con mifepristone e prostaglandina, risalenti al 2010, rendendo possibile il ricorso al metodo farmacologico per l’interruzione volontaria di gravidanza fino a nove settimane, presso strutture ambulatoriali pubbliche, consultori oppure in regime di Day Hospital (DH).
Le vecchie linee guida invece consentivano la somministrazione del farmaco solo entro le prime sette settimane e consigliavano un’ospedalizzazione di tre giorni, benché in molti altri paesi europei fosse già possibile assumere il farmaco in DH ed entro le nove settimane. La precedente normativa lasciava però libertà di scelta alle Regioni sul ricovero e per questo motivo negli ultimi anni alcune regioni italiane avevano introdotto il regime di ricovero in DH, dato che la sicurezza di questa pratica era già accertata a livello mondiale.
Da quest’estate dunque, le donne che vogliono abortire per via farmacologica, possono farlo entro le nove settimane, semplicemente andando in ambulatorio o in consultorio, dove saranno informate sul funzionamento del farmaco e sulla procedura dell’intervento.
I vantaggi dell’interruzione di gravidanza tramite metodo farmacologico
L’interruzione di gravidanza per via farmacologica è sconsigliata dal Consiglio Superiore di Sanità solamente alle donne che soffrono di ansia, che hanno una soglia del dolore molto bassa e che vivono in condizioni igieniche precarie. Ad eccezione di questi casi, il metodo farmacologico non comporta rischi per la salute delle donne, come dimostra la più autorevole letteratura scientifica internazionale e l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha infatti incluso i due farmaci abortivi nella lista delle medicine essenziali. Inoltre, evitando l’intervento chirurgico, l’anestesia e l’ospedalizzazione, questa pratica ha numerosi vantaggi per il benessere psicofisico delle donne, poiché è meno invasiva e dolorosa e, potendosi svolgere anche nella tranquillità domestica, permette di non doversi assentare dai propri impegni lavorativi e dalla propria famiglia per 3 giorni interi. Inoltre, determina un notevole risparmio economico per il Servizio Sanitario Nazionale rispetto all’aborto chirurgico, che richiede ricoveri, anestesie e l’impiego di sale operatorie.
L’allineamento dell’Italia agli altri paesi europei riguardo alle normative sull’aborto farmacologico era una richiesta di lungo corso dei movimenti femministi e delle associazioni che difendono i diritti delle donne. Negli ultimi mesi inoltre, le restrizioni legate alla pandemia da coronavirus avevano ulteriormente ostacolato l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, già di norma problematico per l’alto numero di obiettori di coscienza, e avevano reso evidente la necessità di una procedura che facilitasse l’intervento, evitando il ricovero in ospedale se non indispensabile.
Il dibattito in Piemonte
Per questi motivi, la proposta di Maurizio Marrone non sembra motivata tanto da preoccupazioni per la salute delle donne, quanto da una volontà di limitare il diritto di scelta su una questione così complessa, nonostante affermi che “difendere il ruolo di informazione, approfondimento e assistenza dei consultori, riconosciuto dalla legge 194, rispetto al tentativo di Speranza di trasformarli in luoghi di esecuzione dell’aborto, insieme alla decisione di consentire sportelli informativi del volontariato pro vita negli ospedali, è una vittoria non tanto e non solo di Fratelli d’Italia, ma della libertà di scelta della donna, perché una vera scelta è tra due possibilità”.
Tuttavia, interrompendo la somministrazione della pillola Ru486 nei consultori e riservando l’attuazione dell’aborto al solo ambito ospedaliero (dove peraltro si installeranno associazioni pro-vita di stampo cattolico) si ostacola l’intero procedimento, con il rischio di scoraggiare le donne che già si trovano in una condizione difficile. “È evidente – dichiara infatti Monica Iviglia, responsabile Politiche di Genere della segreteria della Cgil regionale – che se in Piemonte si limita tale disposizione, escludendo i consultori, si rischia di spazzare anni di lavoro e di esperienze a favore delle donne. La Regione dimentica che il ruolo primario dei consultori è quello informativo e di prevenzione nel percorso dell’interruzione di gravidanza, con personale sanitario formato per garantire la salute delle donne, sostegno psicologico e soprattutto luogo di accoglienza”.
Il mantenimento del Day Hospital e il parere degli esperti sull’interruzione di gravidanza
Fortunatamente la delibera non è stata approvata integralmente, ascoltando le opinioni degli esperti e lasciando la possibilità di aborto in Day Hospital. “Bene per quel che riguarda il day hospital, per il resto non cambia nulla al di là del linguaggio che usano, è solo un po’ di propaganda“, ha infatti detto all’Ansa Silvio Viale, esponente Radicale e responsabile del servizio unificato Ivg dell’ospedale Sant’Anna di Torino, spiegando anche che di fatto i consultori, benché autorizzati, di norma non effettuavano aborti e che quindi “si vieta qualcosa che non c’è”.
Precedentemente, erano state numerose le voci della comunità scientifica torinese a levarsi contro il divieto di aborto farmacologico in Day Hospital, come Guido Giustetto, presidente dell’Ordine dei Medici di Torino, che il 18 settembre ha inviato una lettera al presidente della Regione Alberto Cirio, pregandolo di non modificare le linee guida nazionali, sostenendo l’evidenza scientifica della sicurezza dell’aborto farmacologico e ribadendo che “Non si torna al passato”. Lo stesso Viale, difendendo la possibilità di un aborto sicuro e scientificamente valido, aveva accusato Marrone di non avere la minima idea dell’argomento, sottolineando la necessità dell’aborto farmacologico: nei primi 8 mesi del 2020 infatti, il 52% degli aborti si è svolto grazie alla Ru486, senza la quale non sarebbe possibile rispondere a tutte le richieste.
Le critiche
Le criticità rimangono numerose, a cominciare dalla disparità con le altre regioni italiane, dove vige la normativa nazionale approvata ad agosto. “La circolare della Regione Piemonte sull’aborto farmacologico rappresenta un passo indietro sul fronte della maternità consapevole e della tutela della salute delle donne e crea una disparità rispetto alle altre regioni italiane”, ha infatti commentato la vicepresidente del Senato e senatrice Pd, Anna Rossomando. “Ci batteremo per la modifica dell’atto della Regione Piemonte” aggiunge. Le fanno eco altri esponenti politici, come Marco Grimaldi di LUV, che definisce la campagna del centrodestra un “attacco alla libertà delle donne il cui corpo è usato solo per una battaglia elettorale”. Fortemente contraria anche la consigliera regionale M5S Francesca Frediani che rileva le incongruenze della delibera regionale rispetto alle direttive nazionali: “Il blitz antiabortista della Regione – accusa – presenta evidenti profili di illegittimità. Valuteremo tutte le strade percorribili affinché l’applicazione della legge italiana in materia di interruzione volontaria di gravidanza venga garantita anche in Piemonte, compreso il ricorso al Tar”.
Finanziamenti della Regione alle associazioni pro-life?
Il fatto più grave sembra però la presenza della variegata galassia di associazioni pro-life all’interno del percorso di scelta delle donne riguardo all’aborto. Infatti, nella delibera presentata da Marrone a setttembre si parla di progetti di collaborazione tra la rete dei consultori piemontesi e queste associazioni, che, adeguatamente finanziate dalla Regione, dovrebbero sostenere le maternità difficili, ad esempio tramite aiuti economici e adozioni prenatali a distanza. Nella circolare indirizzata alle Asl invece si parla di “sportelli informativi all’interno degli ospedali piemontesi” gestiti da “formazioni sociali di base e associazioni di volontariato”.
Dunque, secondo Fratelli d’Italia, per impedire gravidanze indesiderate e aiutare le donne a scegliere consapevolmente in tema di maternità, è sufficiente sostenere le associazioni pro-life (come ad esempio il Movimento per la vita, citato nei documenti), note per essere parecchio conservatrici, vicine agli ambienti cattolici e contrarie all’aborto, e favorire una loro collaborazione con i consultori, con il rischio di immettere personale non formato in contesti sanitari molto delicati e di creare punti di propaganda antiabortista all’interno degli ospedali.
Obiezione di coscienza e altre problematiche
Nella bozza della mozione (pubblicata da L’Espresso), non si parla invece di supporti finanziari alle famiglie con figli, di educazione sessuale nelle scuole o di gratuità degli anticoncezionali, tematiche spesso e volentieri ignorate, che invece sarebbero davvero d’aiuto sia per favorire la maternità sia per scegliere consapevolmente su questa, evitando gravidanze indesiderate. Sembra invece che l’unica preoccupazione di Fratelli d’Italia sia impedire la piena autodeterminazione delle donne, intromettendosi in questioni delicate e provando a contrastare le linee guida approvate da autorevoli istituzioni scientifiche.
Altra assente nella delibera è poi la questione dell’obiezione di coscienza, le cui altissime percentuali rendono difficoltosa se non impraticabile in alcuni casi l’interruzione volontaria di gravidanza. Come riporta l’ultima Relazione del Ministro della Salute sull’attuazione della legge 194/78 relativa all’anno 2018, i medici obiettori in alcune regioni raggiungono il 90% dei ginecologi e, a livello nazionale, sono solo 362 su 558 le strutture dotate di reparti di ostetricia e ginecologia che effettuano interruzioni di gravidanza. Anche per Torino i dati non sono rosei. Il collettivo Non Una di Meno denuncia infatti percentuali di obiettori dell’84% nella ASL TO1, del 69,2% nella ASL TO2, del 61,53% nella TO3, del 68,96% nella TO4 e del 61,20% in TO5. Fuori dal capoluogo le cose vanno anche peggio: nelle ASL di Novara, un solo medico non è obiettore, ad Alessandria sono 2 e a Cuneo sono 3.
È evidente quindi che, sebbene la legge 194 garantisca sulla carta l’interruzione di gravidanza in modo gratuito e libero, di fatto le alte percentuali di medici obiettori, il giudizio sulle scelte delle donne e lo stigma sociale di cui è spesso vittima chi ricorre ad un aborto rendono ancora oggi questa pratica difficile da attuare. Eppure, si tratta di una decisione assolutamente personale, spesso dolorosa da prendere, la cui attuazione dovrebbe essere garantita in qualsiasi caso e che nessuno dovrebbe avere il diritto di giudicare, tantomeno se uomo.

Murales femminista contro l’obiezione di coscienza