Performance art, cioè?
La performance art o performance d’artista, è una manifestazione artistica in cui ad essere protagonisti sono proprio l’azione, la presenza o il corpo. La performance può assumere le connotazioni più varie: è un evento, che si verifica sotto forma di danza, canto, movimento, azione, riproduzione. O tutti questi elementi insieme.
Lo spettatore a seconda delle diverse tipologie, può essere più o meno coinvolto nell’evento. A livello materiale gli può essere richiesto di fare o compiere qualche gesto, può essere costretto dalle circostanze a farlo o semplicemente invitato. Sarà sicuramente un tassello fondamentale per la buona riuscita dell’opera, la sua fruizione sarà in qualche modo attiva, partecipata. Anche a livello emozionale, assistere o prendere parte ad una performance è un’esperienza vera e propria. La performance può dunque vedere la presenza dell’artista stesso o di un performer, una figura terza voluta e pensata dall’artista.
Rispetto alle tradizionali opere teatrali, le performance hanno spesso lo scopo di stupire e attrarre l’attenzione del pubblico, il quale partecipando oltrepassa la linea di divisione tra palcoscenico e platea. A volte si tratta di azioni contrassegnate da connotazioni violente che possono assumere tratti esasperati o grotteschi; altre volte si tratta di eventi semplici, da poter essere considerati quasi comportamenti comuni.
Molto spesso poi le performance, pur rimanendo inquadrate nella cornice delle arti visuali, vengono eseguite e realizzate fuori dai luoghi canonici destinati all’arte, in spazi pubblici come strade, piazze, giardini e nel corso di situazioni ordinarie. In questi casi l’azione del performer consiste spesso nell’esplicita violazione di tacite convenzioni delle interazioni sociali. Lancia una provocazione al pubblico ed assiste alla sua reazione. Così la performance artistica, unica nella sua esibizione, per natura non replicabile. L’unicità dell’arte si riflette proprio sul fatto che essa possa avvenire in quel momento e quello solo, con quelle precise caratteristiche di tempo e spazio. E possa in questa unicità assomigliare alla vita, all’irripetibilità dei momenti, all’unicità della fruizione che consente.
Le origini della Performance art
Le origini della performance art, come quelle di ogni espressione artistica, affondano nel passato e nell’evoluzione culturale. Come qualsiasi storia, anche la storia dell’arte presenta una connessione e un filo logico fondamentale, senza il quale non sarebbe possibile evolvere l’espressione artistica e dare vita al movimento successivo. I precursori della performance sono i dadaisti, i futuristi, ma senza il teatro greco, i rapsodi, il teatro rinascimentale non si sarebbe potuti giungere ad essa. E’ il frutto stesso dell’evoluzione artistica, del processo storico. Grazie a queste influenze l’artista inizia a prendere coscienza di sé, dello spazio, la sua unicità diventa paradigmatica in quanto è lui stesso arte, la sua presenza e visione del mondo riescono ad indirizzare la manifestazione artistica.
Fare arte non significa più indossare i panni di qualcun altro o ritrarre memorie e paesaggi incantevoli e perfetti. L’imperfezione, l’unicità diventano temi chiave della presente arte. E del modo di interpretarla. La critica artistica inizia a interrogarsi su questa manifestazione e la definisce essere un’espressione tangibile dell’arte concettuale. Goldberg pubblica nel 1979 un saggio sulla performance art, è egli stesso ad intravederne le radici nel Novecento. I Dadaisti ad esempio, ne furono degli importanti progenitori, con le loro esibizioni non convenzionali di poesia, tenute spesso al Cabaret Voltaire di Zurigo, circolo di avanguardia sperimentale per i primi artisti, da Richard Huelsenbeck, Tristan Tzara e altri. Ma anche in maniera fondamentale nella cultura teatrale, nelle scenografie animate di Balla e Depero.
I primi anni
Le Avanguardie Storiche, gli stimoli culturali di quegli anni influiscono in maniera preponderante sulla ricerca e sperimentazione artistica.
Dagli anni 50 del Novecento assistiamo a una sperimentazione in campo musicale, John Cage sperimenta una nuova tipologia di fare musica, definita non intenzionale, indagando sulle nuove pratiche di danza. Nel 1952 presenta il suo singolo 4’33” senza produrre alcun suono. Negli anni Cinquanta le classi di Cage si riempiono di numerosi artisti, tra questi Kaprow che inaugurerà gli Happenings a New York nel 1958, avranno molto seguito tra gli artisti della pop art americana come Rauschenberg, Johns e Dine.
“L’happening” è tra le prime forme d’arte contemporanea basate sul concetto di performance. Gli invitati potevano assistere agli eventi proposti che si sarebbero svolti una sola volta, per una durata totale di un’ora e mezzo: proiezione di diapositive, ascolto di musica improvvisata, donne impegnate in azioni quotidiane, artisti che dipingono tele appese a tramezzi, altri che fanno girare cartelli e recitano testi o suonano uno strumento. Tutti questi eventi incarnano valori antitetici a quelli caratterizzanti l’universo delle “belle arti”.
In alcuni casi si coinvolge il pubblico per denunciare, ad esempio una situazione di degrado, come nel caso del fotografo e performer Augusto De Luca, che ha organizzato una partita di golf nelle buche stradali di Napoli. L’happening avviene generalmente in luogo pubblico, all’aperto come fosse un gesto di irruzione nella quotidianità.
Sul fronte europeo, i primi artisti che sperimentarono con la performance art furono Klein e Manzoni. Del primo sono celebri le modelle dipinte di blu, il blu Klein, che lasciano tracce sulla tela bianca. Il movimento internazionale Fluxus del critico Macunias, 1961, fortemente influenzato da Kaprow, ha visto la partecipazione di artisti come Christo (l’autore della Floating Piers sul lago di Iseo del 2016), Spoerri, Nam June Paik, Joseph Beuys e altri. In Oriente ha visto il nome del gruppo giapponese Gutai.
Numerose sono le apparizioni anche al femminile di questi anni, prime tra tutte la Vagina Painting di Shigeko Kubota a New York nel 1965. I movimenti studenteschi del 1968, sanciscono definitivamente la performance art come riconosciuta all’interno della storia dell’arte.
Si può comprare una performance?
Il problema della proprietà si pone davanti ad un’opera di questo tipo, dato che per le sue caratteristiche intrinseche non è contenibile in una scatola, o neanche lontanamente descrivibile in misure e confini. Molti artisti, contro correnti rispetto al mercato delle opere d’arte, hanno deciso negli anni di non vendere le proprie performance art, rendendole così irripetibili e dal valore inestimabile. Molto spesso sono le riproduzioni di esse, sotto forma di fotografie e riprese video a divenire l’opera stessa, potendo così in qualche modo essere scambiate. In altri casi la proprietà si trasmette attraverso certificati, attestati di compravendita che contengono tutte le indicazioni per la replicabilità della performance.
Questo, seppur possa sembrare una contraddizione con il termine stesso di performance, ne permette a volte una più larga diffusione. La performance è di per sé unica ma ammette repliche, esse non saranno mai identiche ma puntano ad avvicinarsi parecchio all’originale, in modo da poter reiterare il valore artistico. Indicazioni quindi sulla fisionomia dei performer, indicazioni spaziali sulla posizione e gestualità che questi devono assumere. Alcuni arrivano ad indicare anche, nel caso di oggetti da sostituire, gli unici rivenditori autorizzati a fornirli. Tutto deve essere fatto secondo la disposizione dell’artista. Le varie performance, seppur riprodotte, non potranno rassomigliarsi ed essere identiche, mantenendo in ogni caso una propria diversità.
Marina Abramović, “la nonna della Performance art”
Marina Abramovic, artista serba naturalizzata americana, da sempre definita “la nonna della performance art”. Nata a Belgrado nel 1946 da una famiglia di partigiani, fin da giovane si interessò e appassionò all’arte, passione tramandatale anche dai suoi genitori. Sua mamma fu direttrice del museo della Rivoluzione e Arte in Belgrado. Marina frequentò l’Accademia di Belle Arti a Belgrado e subito dopo iniziò ad insegnare all’Accademia di Novi Sad. Negli anni 70 iniziò a creare ed elaborare le sue prime performance che presto si fecero largo anche in Italia ed arrivò ad esporre per la prima volta a Milano nella galleria di Luciano Inga Pin. Si trasferì ad Amsterdam nel 1976 dove il 30 novembre di quell’anno, giorno di compleanno di entrambi, incontrò l’artista Ulay con il quale avvierà una celebre collaborazione artistica oltre che sentimentale.
Ulay è lo pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen, artista, fotografo e performer tedesco. Lavorò come fotografo. In particolare, si dedicò all’uso artistico della Polaroid, lavorando sui temi dell’identità sessuale e di genere, sugli stereotipi e i pregiudizi, tra cui gli autoritratti con mezzo volto truccato da donna.
Ulay e Marina, gli anni dei “Relation Works”
«Ci sono coppie che, quando iniziano a convivere, comprano pentole e padelle. Ulay ed io cominciammo a progettare di fare arte insieme»: così ricorda Marina nella sua autobiografia. Nacque, così, uno dei più formidabili sodalizi della storia dell’arte contemporanea. Nei primi e più felici anni della loro relazione viaggiarono per l’Europa in un furgone adibito a camper, in quello che denominarono un “Movimento permanente”, vivendo di poco, ricavando denaro per mantenersi in maniera essenziale soltanto dalle loro esibizioni o dalle polaroid di Ulay. L’insieme dei lavori frutto della loro collaborazione artistica prende il nome di “Relation Works”, sensazionali performances attraverso cui esplorarono il tema della relazione, della corporalità arrivando a mettere alla prova la loro resistenza fisica e psichica.
Relation in space
Nel luglio del 1976 misero in performance “Relation in space” alla Biennale di Venezia: entrambi completamente nudi camminarono per un’ora uno verso l’altro, sfiorandosi, urtandosi sempre più violentemente e velocemente. «Eravamo innamorati – ricorda Marina – avevamo una relazione molto intensa e gli spettatori non potevano non percepirla. Ovviamente c’erano molte altre cose che ignoravano, e molte altre che proiettavano su di noi mentre continuavamo a ripetere quella strana azione. Chi eravamo? Perché ci scontravamo? Nella collisione c’era ostilità? Oppure c’era amore, o pietà?».
Imponderabilia
“Imponderabilia”, proposta alla Galleria d’arte Moderna di Bologna nel 1977, inaugurò una serie di performance successive dello stesso tipo, che verranno reiterate negli anni su istruzione dell’artista ma affidate ad attori. La prima volta però rimase celebre, Marina e Ulay si posero nudi, uno di fronte all’altra agli estremi stipiti di una porta. I visitatori erano obbligati a passare in mezzo a quello spazio stretto, a sfiorare i loro corpi, a decidere da che parte voltarsi, se guardare l’uno o l’altra poiché di profilo era più agevole passare. Era un lavoro che affrontava l’intimità, il significato della pelle, il fatto stesso di muoversi per vivere l’esperienza d’arte; chi stava fuori non poteva dire davvero di aver visto l’opera dell’Abramovic. In tre ore, circa 350 persone attraversarono quella “porta vivente”, fino a quando le forze dell’ordine non interruppero la performance accusando gli artisti di atti osceni in luogo pubblico.
Expansion in space e le opere successive
Si susseguirono numerose performances dei cosiddetti “Relation Works”, nello stesso anno di Imponderabilia. Misero in atto “Expansion in space” in un parcheggio sotterraneo a Kassel. Sempre entrambi nudi, al centro del parcheggio, si davano le spalle appoggiati uno alla schiena dell’altro, muovendosi per andare a sbattere contro due pilastri di legno posti di fronte a loro. Dopo l’urto, i due ritornavano nella posizione iniziale, per poi ricominciare.
E ancora nel 1977 “Light/Dark” alla Fiera Internazionale dell’Arte di Colonia. Tale performance venne successivamente replicata, nel 1978, in uno studio di Amsterdam e filmata. I due artisti, inginocchiati uno di fronte all’altra, si schiaffeggiarono alternativamente con forza e sempre più velocemente per venti minuti.
Registrarono a Belgrado “Breathing in / Breathing out”, durante la quale Ulay e Marina rimasero incollati bocca contro bocca per quasi venti minuti, respirando uno il fiato dell’altra. Svennero per la mancanza di ossigeno.
“Relation in Time” si svolse presso la Galleria Studio G7 di Bologna. In questo caso, Marina e Ulay rimasero in silenzio per sedici ore. Erano seduti schiena contro schiena e legati tra loro per i capelli.
Nel 1978 registrarono a Liegi “AAA”: una performance in cui i due artisti si urlarono in faccia a vicenda, fino allo sfinimento. Ulay fu il primo a rinunciare.
Nel 1980 fu il turno di “Rest Energy”, registrata al Film studio di Amsterdam. Fu una performance pericolosa. Ulay, per quattro minuti e venti secondi, resse un arco, con la corda tesa e una freccia puntata al cuore di Marina. Dei microfoni applicati sui loro vestiti amplificavano sia il battito cardiaco accelerato sia la respirazione irregolare dei due.
Molti i temi affrontati in queste performance, dalla relazione con il corpo all’interno di un rapporto di coppia, alle problematiche di sopraffazione, le tensioni che si generano. Il rapporto del corpo con lo spazio, l’imposizione, il legame, la comunicazione, fino alla fiducia e il totale abbandono della vita nelle mani dell’altro.
La separazione e le carriere soliste
Dopo 12 anni di vita in comune e di di sodalizio artistico, Marina e Ulay decisero di lasciarsi e di chiudere il loro rapporto con una spettacolare performance di addio: “The Wall Walk” in China, durante la quale percorsero a piedi tutta la Grande Muraglia cinese, partendo dai capi opposti, per incontrarsi, dopo novanta giorni, al centro e salutarsi per l’ultima volta.
La separazione non fu indolore. Ulay, che si era spesso sentito oscurato dal carattere e dalla incontenibile personalità della compagna, accusò Marina di aver tratto profitto da opere comuni e la denunciò. Ulay tornò alla fotografia, continuò con alcune performance ma il vigore artistico degli anni d’oro si era spento. Mentre la carriera artistica di Marina continuò fiorente anche per quanto riguarda i suoi progetti singoli.
“Dragon Heads”, tenutasi nel 1990 la vede seduta immobile su una sedia circondata da un cerchio formato da blocchi di ghiaccio, l’artista ha cinque pitoni che si muovono sul suo corpo, lunghi 2, 3 e 4 metri e privati di cibo nelle due settimane precedenti l’esecuzione.
“Balkan Baroque”, nel 1997, performance tenuta alla Biennale di Venezia che le vale la vittoria del premio il “Leone d’oro”. L’artista, seduta su tonnellate di femori di bovino, li pulisce in modo ossessivo per 6 ore e 4 giorni, come atto di denuncia per la guerra in Jugoslavia.
“The Hero”, 2001, la performance è un video in bianco e nero della durata di 14’21”. L’opera è dedicata al padre di Marina, soldato antinazista nella seconda guerra mondiale, morto nello stesso anno della performance. Abramovic seduta su un cavallo bianco tiene una bandiera bianca che si muove con il vento. Una voce femminile canta in sottofondo l’inno nazionale jugoslavo.
“The Artist is present” e gli ultimi lavori
Nel 2010, torna sulla scena con una delle performance più celebri legate alla sua carriera. “The Artist is present”, tenuta al MoMA di New York e durata 736 ore, dal 14 marzo al 31 maggio 2010. Marina seduta davanti a un tavolo per molte ore al giorno, incontrava gli sguardi del pubblico che le si avvicinava e le si sedeva di fronte, per tutto il tempo che riteneva necessario. Uno dei momenti più intensi è quando Ulay, decide ad insaputa dell’artista di partecipare alla performance. Lei alza gli occhi e lo vede, trasgredendo la ferrea regola che si impone in ogni sua performance (in quel caso, non doveva né parlare con il pubblico né toccarlo ma solo guardarlo), commossa allunga le mani verso di lui. E’ la loro “riunione” dopo la separazione e la sofferenza ed è un momento di verità assoluta all’interno dell’opera.
«Fu uno shock. In un attimo mi passarono davanti dodici anni della mia vita. Per me non era certo un visitatore come gli altri. Così, solo per quella volta, infransi le regole. Misi le mie mani sulle sue, ci guardammo negli occhi e, prima di rendermi conto di quello che stava accadendo, ci ritrovammo in lacrime». Il video di quest’ultimo loro incontro è diventò virale ed è stato inserito all’interno dell’omonimo documentario del 2012.
La Performance Art di Marina Abramović: il significato
Un’artista che ha sempre sfidato gli schemi convenzionali per porsi al di là, per scoprire e inaugurare continuamente nuovi paradigmi dell’arte. I temi a lei più cari, ricorrenti in moltissime delle sue performance sono il rapporto con il sesso, il corpo, la morte, la solitudine, la violenza, il mondo balcanico. Lei è spesso stata protagonista delle sue performance, attraverso il suo corpo o la sua presenza. Altre volte invece ha affidato la scena a degli attori performer.
“Quello che posso dire è che questa performance mi ha cambiata a livello profondo; per me può solo avvenire che il mio lavoro cambi la mia vita e non l’opposto. (…) l’aspetto interessante della situazione è che il pubblico osserva se stesso e l’osservatore diventa osservato (…) dobbiamo esplorare altri modi di comunicare”.
“The Abramovic Method”, performance che ha avuto luogo a Milano presso il PAC nel 2012. Nasce da una riflessione che l’artista ha sviluppato partendo dalle sue ultime performance: The House With the Ocean View (2002), Seven Easy Pieces (2005) e The Artist is Present (2010), esperienze che hanno segnato profondamente il suo modo di percepire il proprio lavoro in rapporto al pubblico. Il pubblico, guidato e motivato dall’artista, è invitato a vivere e sperimentare le sue installazioni interattive.
Il film documentario della Performance Art di Marina Abramović
Sempre nel 2012 esce il film documentario di Matthew Akers, dal titolo “The Artist is present”, il quale racconta la preparazione e realizzazione dell’omonima performance del 2010, attraverso tutto il background della vita dell’artista. “Portraits in the Presence of Marina Abramović” è invece una collezione di ritratti sul rapporto tra il pubblico e l’artista ad opera del fotografo italiano Marco Anelli.
Nel 2019 a Palazzo Strozzi a Firenze, le viene dedicata la mostra “The Cleaner”, rassegna che riunisce una selezione di alcune opere dell’artista, offrendo una panoramica sui lavori più famosi della sua carriera artistica. Video, fotografie, dipinti, installazioni e la riesecuzione dal vivo di sue celebri performance da parte di performer formati e selezionati.
Il 2 marzo 2020, lancia un messaggio social in ricordo dell’ex compagno di vita Ulay, scomparso in questa data.
“Italia il mio cuore è con voi” è il messaggio che l’artista ha lanciato poche settimane fa via social per un progetto di Palazzo Strozzi. Un paese con cui l’artista ha sempre avuto un rapporto particolare e privilegiato. Nel 2018 aveva dichiarato a Vanity Fair “È stato il primo paese ad accogliere la mia arte, il primo, dopo il mio paese di origine, dove ho messo in scena le mie performance. L’Italia mi ha dato l’opportunità di iniziare la mia carriera, per me è stato importante e anche inusuale, perché all’epoca non c’erano molte donne che facevano performing art.
2 commenti