L’esperimento finlandese della premier Sanna Marin. Una premier donna di 34 anni accorcia l’orario lavorativo di alcuni lavoratori.
No, non è l’incipit di un romanzo di fantascienza, ma la premier finlandese Sanna Marin e la sua proposta di settimana lavorativa di 6 ore al giorno per 4 giorni. Senza ridurre lo stipendio.
Motivo di questa sperimentazione è il fatto che i dipendenti dovrebbero trascorrere più tempo per la famiglia e dedicarsi ai propri interessi, sostiene il primo ministro.
La settimana corta è prevista per i dipendenti della pubblica amministrazione e il personale ospedaliero. L’orario tipico era caratterizzato dalle 40 ore settimanali. I dipendenti hanno mostrato già una maggiore produttività e soddisfazione. Una mossa destinata a durare? Si vedrà.
L’ispirazione della settimana breve potrebbe comunque venire dalla Svezia, dove già Göteborg aveva adottato questo modello nel 2015.
E ci sono altre notizie positive, ma dalla Svizzera, per i dipendenti pubblici che usano treni e autobus. Dal 2020 il tragitto casa-lavoro viene conteggiato nelle ore lavorative. Questo perché si stima che un lavoratore svizzero impieghi mediamente 62 minuti al giorno per raggiungere il posto di lavoro. La riforma è stata fortemente richiesta (e ottenuta) dai sindacati locali.
…E in Italia?
Esperimenti del genere da noi sembrano ancora lontani. Qualche impresa si sta muovendo nella direzione del lavoro agile. Quanto a ridurre la settimana di lavoro, però, non se ne parla. Anzi, al minimo delle 40 ore bisogna aggiungere il tempo del tragitto casa-lavoro.
C’è chi impiega più di un’ora per gli spostamenti, considerando che i trasporti pubblici spesso non sono dei migliori. Pensiamo alla Capitale. Pensiamo agli innumerevoli scioperi dei dipendenti ATAC e delle condizioni in cui si trova la compagnia, un esempio è quello degli autobus in fiamme.
Perché in Italia sarebbe difficile applicare una normativa del genere? Perché ci sono ancora troppe imprese guidate dal mito della produttività. La vecchia equazione “lavori di più = produci di più”, che trascura completamente l’aspetto qualitativo del tempo e la soddisfazione dei dipendenti visti come risorse sulle quali investire, va ancora per la maggiore. Senza contare tutti i lavori precari e sottopagati, dove le 40 ore teoriche possono diventare, nella pratica, molte di più. Ed è per questo che in Italia il dibattito si è incentrato non su giornate lavorative accorciate ma su reddito minimo universale.
Proprio così, ci riferiamo all’introduzione del famoso reddito di cittadinanza. Con risultati che parlano da sé.
L’ultima volta in cui si è parlato di lavorare di meno, di preciso 35 ore, è stato negli anni Novanta grazie a Rifondazione Comunista.
Al momento, le lotte nostrane sembrano incentrate più a “mantenere” qualcosa (un contratto di lavoro, uno stabilimento che vuol chiudere, un marchio storico venduto all’estero, norme modificate e ritoccate da un governo all’altro) piuttosto che a “introdurlo”.
I Paesi industrializzati differiscono da quelli in via di sviluppo.
Nei Paesi in via di sviluppo l’orario prolungato è legato ai bassi salari. Si è obbligati a lavorare di più per ottenere una paga accettabile.
Nei Paesi industrializzati, invece, alcuni tipi di professioni (come per i manager) richiedono lavoro a qualsiasi ora e durata, per portare a termine un task o rispettare una scadenza. Un altro motivo è mostrare il proprio impegno al capo.
Gli sweatshop
Il 54.5% dei lavoratori nel Sud-est Asiatico è impiegato per più di 48 ore settimanali, essendo così l’area geografica in cui si lavora maggiormente al mondo.
In questa parte del mondo (ma non solo) si concentrano gli sweatshop o “sweat factory“.
Si tratta di luoghi di lavoro dove non ci sono diritti e condizioni minimamente accettabili, nati nell’Ottocento e ancora diffusi nel mondo. Sono caratterizzati da affollamento, povertà, bassi salari (spesso a cottimo), pericolosità, sfruttamento.
Uno dei più famosi marchi ad utilizzarli è stato Nike. Negli anni Novanta si è scoperto che pagava i lavoratori (anche bambini) 14 centesimi l’ora.