Non è facile parlare di giovani e lavoro senza cadere in luoghi comuni e banalità. Da anni ormai è un topos delle discussioni pubbliche e politiche, un tema tanto abusato, quanto allo stesso tempo delicato.
D’altronde, inutile negarlo, quando sorge un qualsiasi problema, quest’ultimo è accompagnato da una domanda: sì, ma i giovani? Un po’ come quando la famiglia deve andare in vacanza e ci si pone il problema del pesce rosso. Sperando mi possiate passare il paragone un po’ semplicistico, prendiamo ad esempio la pandemia, protagonista assoluta degli ultimi mesi.
Che ci sarà una crisi economica alla fine di tutto ciò, a detta degli esperti, è inevitabile. Ovviamente, ne consegue che i primi a subirne le conseguenze saranno nientepopodimeno che… i giovani. E da qui, specie nei salotti tv, si dà il via ad una serie di luoghi comuni, accompagnati da una retorica degna di Totò e Peppino: i giovani se ne andranno, non faranno più figli, non hanno speranze, non hanno futuro.
Insomma, per colpa del virus perderemo un’altra generazione. Che si aggiunge a quella precedente. Alla fine di tutti i discorsi, si riesce sempre a raggiungere l’obiettivo: non tanto cercare una soluzione, quanto trovare una scusa. Se prima era colpa della supercrisi del 2008, oggi è colpa del covid.
Nessun errore delle classi politiche, nessuna responsabilità del sistema economico, nessun mea culpa da generazioni più anziane. E tutti felici. Tranne, ovviamente, i giovani.
Meno tutele, più tagli
Partiamo da un dato: secondo l’Istat, da febbraio in poi, si sono persi quasi mezzo milione di posti di lavoro. In particolare, nelle fasce d’età 15-24 e 24-36 anni l’occupazione è scesa rispettivamente del 12% e del 6%. Soltanto il blocco dei licenziamenti ha permesso di congelare la situazione. Un dato che sembra confermare la teoria che considera il virus come la causa principale.
Eppure, con una semplice analisi più dettagliata dei numeri, si evince che il virus ha solamente aggravato un problema già preesistente. Come lo conferma il fatto che nella fascia d’età 50-64 anni, nello stesso periodo, l’occupazione è addirittura cresciuta.
Ci si può chiedere quale sia il motivo di tale differenza. Il lavoro giovanile, nel nostro paese, molte volte corrisponde a meno tutele e più contratti a tempo determinato, spesso poco retribuiti o addirittura per nulla. Il giovane italiano è costretto a vagabondare tra stage e tirocini, o anche esperienze gratuite a “scopo formativo”. Il tutto mentre un coetaneo francese o tedesco può arrivare in poco tempo ai vertici di un’azienda o, più semplicemente, trovare lavoro nel proprio ambito.
Se all’estero chi possiede una laurea viene valorizzato, per Italia non si può dire lo stesso. Un giovane laureato italiano arriva a guadagnare solamente il 10% in più di un coetaneo senza laurea. In Francia e in Inghilterra le cifre sono diverse: rispettivamente il 45% e il 35%.
Paradossalmente per i laureati nella fascia d’età tra i 55 e i 64 anni i dati si invertono totalmente e l’Italia diventa il paese con la percentuale più alta, toccando addirittura il 65%.
A livello di investimenti, la tendenza non cambia: il nostro è il paese che più favorisce gli anziani a discapito dei giovani. Ogni euro speso per l’università, l’Italia ne spende 44 in pensioni, ovvero il doppio della Francia. Gli ulteriori tagli alla ricerca attuati negli ultimi anni hanno peggiorato ancora di più la situazione.
Disoccupazione in crescita
La difformità di trattamento emerge soprattutto nel mondo del lavoro. L’Italia, con il suo 62,4%, si pone al penultimo posto per tasso di occupazione nella fascia d’età 20-64 tra i paesi dell’Unione Europea. A livello continentale, solo la Grecia ha una percentuale più bassa. Il divario tra il tasso italiano e la media europea è del 10%.
Divario che diviene ancora più profondo se consideriamo solamente l’occupazione giovanile: se la media europea è del 63,2% quella italiana si ferma al 42,7%, circa 20 punti percentuali in meno.
Secondo una ricerca Openpolis, l’andamento dal 2008 al 2017 è negativo per l’Italia, il cui tasso di occupazione giovanile perde 11 punti percentuali.
Ben diversa la situazione in Germania e Regno Unito, dove al contrario non solo non diminuisce, ma addirittura aumenta: entrambe, infatti, hanno raggiunto rispettivamente il 74% e il 76%.
Eppure, anche loro hanno dovuto attraversare la crisi del 2008. Che l’Italia sia uscita più malconcia dalla supercrisi rispetto alle altre nazioni è fuor di dubbio, ma non in condizioni tali da giustificare un divario così ampio.
Le cause vanno dunque ricercate altrove: l’instabilità politica e, soprattutto, la miopia della classe dirigente. L’instabilità ha di fatto generato una campagna elettorale permanente, alla quale è legato il proliferare di interventi più demagogici che efficaci.
Lo spreco di risorse e un’economia fragile hanno fatto sì che venissero trascurate le fasce d’età più giovani. Una strategia in controtendenza rispetto agli altri paesi Ue, che al contrario hanno identificato i giovani come la soluzione e non come un problema.
Italia a rischio “fuga”
Il divario generazionale è via via aumentato con gli anni, portando l’Italia stabilmente all’ultimo posto della classifica europea. Sono ben 23 i paesi nei quali il tasso di occupazione giovanile supera quello dei lavoratori anziani, mentre solamente 4 nazioni garantiscono più lavoro a persone d’età avanzata rispetto ai più giovani.
Tra quest’ultime è l’Italia ad avere la percentuale peggiore: quasi 10 punti percentuali di differenza a favore dei lavoratori più anziani.
Il Belpaese conquista la prima posizione, invece, per quanto riguarda la percentuale dei cosiddetti “neet”, giovani che non studiano né lavorano. Resta paradossale come nonostante da anni si parli di lavoro giovanile, il tasso di occupazione in queste fasce d’età è in calo in tutte le regioni italiane.
In Sicilia e Campania non supera nemmeno il 22%. La situazione tragica del meridione, dove la media va oltre il 30%, ha provocato negli ultimi anni un vero e proprio fenomeno migratorio interno. Sono molti i giovani che si spostano dal Sud Italia verso il Nord in cerca di opportunità maggiori.
Ma l’andamento del resto d’Italia non lascia ben sperare: se non viene invertita la tendenza, si rischia di assistere ad un fenomeno migratorio di portata ancora maggiore. Milioni di giovani potrebbero partire verso le altre nazioni europee, dove, come abbiamo visto, ci sono migliori condizioni per le fasce più basse d’età.
Una tale eventualità avrebbe effetti disastrosi sia a livello economico che sociale. La cattiva notizia è che la migrazione, purtroppo, sembra già essere cominciata.
Secondo l’Istat, solo nel 2018 sono emigrati 117 mila italiani, dei quali circa 30 mila laureati. Ben più alto è il numero secondo il settimanale L’Espresso: sarebbero 200mila i laureati che hanno lasciato l’Italia nel quinquennio 2013-2018.
Il dato è grave: basti considerare che il 30% degli italiani all’estero ha una laurea, mentre nel nostro paese solo il 17% ce l’ha, una delle percentuali più basse d’Europa. E il trend sembra peggiorare di anno in anno.
Ma come invertire questa tendenza? Chiaramente l’ultima parola spetta agli economisti e agli esperti del settore. Un primo passo però è semplice, non servono lauree in economia o importanti ruoli istituzionali: bisogna cambiare mentalità. È necessario smettere di considerare i giovani come un problema, come una brutta gatta da pelare. Al contrario, i giovani possono essere una soluzione. Per risollevare l’economia italiana c’è bisogno di vitalità e intraprendenza (con un pizzico di ribellione che non guasta mai), qualità che esprimiamo al meglio proprio in gioventù. Chiaramente non deve diventare uno scontro generazionale: l’intraprendenza funziona meglio se collabora con l’esperienza. Gli altri paesi lo hanno capito da tempo. Noi invece… speriamo presto.