Nessuno di noi si sarebbe immaginato di vivere nella propria vita una pandemia globale come quella del coronavirus. Le epidemie infettive di questa portata sembrano infatti qualcosa di lontano, avvenuto in periodi considerati bui ed arretrati, come il Medioevo. Ma com’è stata davvero la più nota epidemia medievale, ovvero quella trecentesca? In primo luogo, fu molto più mortale, dato che la popolazione europea diminuì di circa 1/3, e più contagiosa, visto che la cultura medico-scientifica dell’epoca era ancora molto arretrata.
Tuttavia, nonostante queste premesse drammatiche, la peste ebbe sul lungo periodo conseguenze economiche positive. Si trattò infatti di uno “shock sistemico” che, diminuendo drasticamente la popolazione, riuscì a far ripartire l’Europa dalla situazione di crisi in cui già si trovava prima della peste, ponendo le basi per lo sviluppo del continente in età moderna. Per l’attuale crisi economica causata dal coronavirus invece, le previsioni non sono così positive.
Di cosa parliamo quando parliamo di peste?
Con questo termine si indica solitamente un morbo di origine batterica, che colpì più volte la popolazione umana nel corso della storia. Si tratta di una zoonosi, ovvero una malattia infettiva che può essere trasmessa dagli animali all’uomo. In questo caso il vettore di trasmissione del batterio sono le pulci dei roditori, che possono inoculare il bacillo nell’organismo umano. Il batterio della peste si chiama yersinia pestis e venne scoperto nel 1864 durante un’epidemia ad Hong Kong da Alexandre Yersin, un batteriologo dell’Istituto Pasteur. La peste si manifesta attraverso tre forme prevalenti: la peste bubbonica, in cui il batterio prolifera nei linfonodi con conseguente necrosi; la peste polmonare, polmonite mortale più contagiosa che si trasmette attraverso le vie aeree, e infine la peste setticemica, forma più rara ma letale, generata dall’infezione nel sangue dopo la puntura delle pulci.
Quest’epidemia comparve in Europa molte volte: le pesti più celebri sono quella giustinianea del VI secolo, la peste “nera” del Trecento raccontata dal Decameron di Boccaccio e la peste seicentesca dei Promessi Sposi.
La peste del Trecento e le conseguenze economiche
Nonostante i diffusi pregiudizi che vedono il Medioevo come un periodo buio e arretrato, il mondo trecentesco si basava su un sistema complesso ed interconnesso di relazioni economiche e commerciali tra le varie regioni del Mediterraneo e dell’Europa settentrionale ed orientale. Alcune spedizioni mercantili si erano spinte fino all’Estremo Oriente, come quella del veneziano Marco Polo che, percorrendo la via della Seta, tra il 1271 e il 1295 raggiunse la Cina.
In che modo arrivò in Europa?
Non deve dunque stupire che il batterio della peste arrivò in Europa via mare, trasportato dai ratti presenti su alcune navi genovesi che tornavano dalla Crimea, possedimento “coloniale” di Genova che faceva parte del sistema commerciale integrato costituitosi nei decenni precedenti. La prima regione toccata fu la Sicilia, dove la peste arrivò nel 1347, ma il morbo si diffuse rapidamente in tutta Europa entro il 1349. Facendo il paragone con l’attuale diffusione del covid-19 potrebbe sembrare un contagio molto lento, ma per quel periodo in realtà fu estremamente veloce. Infatti, proprio le interconnessioni del sistema portarono alla diffusione del morbo e alla sua capillarità: la peste arrivò via nave e si spostò insieme alle merci, seguendo le vie degli scambi commerciali.
Come si diffuse?
Inizialmente si diffuse la peste bubbonica, poi invece la malattia si propagò in una forma polmonare, decisamente più contagiosa. L’epidemia si espanse anche perché non c’era alcuna consapevolezza delle modalità di contagio. Si credeva infatti che la peste fosse dovuta ai miasmi dell’aria, ad una congiunzione astrale sfavorevole o ad una punizione divina. Complice anche la scarsa cultura medica e le pessime condizioni igienico-sanitarie soprattutto delle città, né le autorità, né la popolazione presero le adeguate misure di prevenzione. Anzi, ci furono addirittura fughe verso i luoghi non ancora infetti, che causarono un’ulteriore propagazione del contagio. Inoltre, da circa 700 anni la peste era assente dall’Europa e questa lunga fase senza morbo aveva reso i sistemi immunitari della popolazione completamente inermi.
Che effetto ebbe sulla popolazione?
L’effetto della pandemia sull’Europa trecentesca fu devastante. Il tasso di mortalità complessivo della prima ondata epidemica è stimato tra 1/3 e ½ della popolazione europea, anche se con differenze a seconda delle aree. Nei decenni successivi il morbo si ripresentò: nel 1361 e nel 1377 ci furono infatti due nuove ondate che colpirono soprattutto le coorti più giovani in età pre-riproduttiva, ovvero gli adolescenti e i bambini, che non avevano ancora immunizzato il batterio. La ripresa demografica fu dunque estremamente difficile, proprio perché furono falcidiate le fasce di popolazione a cui è normalmente affidata la riproduzione, impedendo così i fenomeni di baby boom che spesso seguono le fasi di recesso demografico.
Il contesto pre-peste
Per capire meglio la drammatica portata dell’epidemia, bisogna considerare che la peste arrivò in un’Europa dove già imperversava da alcuni decenni una grave crisi economica, con ricorrenti carestie. L’epidemia colpì quindi una popolazione già indebolita, in cui alcuni strati soffrivano di malnutrizione endemica e immunodepressione. Dopo il grande sviluppo che aveva caratterizzato tutto il ‘200, secolo in cui erano aumentati i livelli demografici, di popolamento e crescita delle città, e in cui si era creata un’economia molto più grande e complessa rispetto al passato, il trend positivo entrò in una fase di stallo all’inizio del ‘300.
La crisi delle campagne
Una delle cause principali di questa stasi fu la sovrappopolazione nelle campagne: la popolazione cresceva troppo in fretta rispetto alla quantità di terre disponibili. Questa tensione malthusiana tra popolazione e risorse sul lungo periodo determinò una tendenza alla saturazione dei territori rurali, con un conseguente blocco della crescita demografica in tutta Europa, anche se con molte differenze regionali. Alla fine del XIII secolo si verificarono inoltre alcune annate di cattivi raccolti, che ridussero in miseria numerosi contadini.
Per le campagne si parla di “caduta tendenziale del saggio di rendita”: meccanismo tipico delle economie agricole preindustriali con un basso tenore di tecnologia, in cui la rendita decresce man mano che sono messi a coltura i terreni più marginali. Questo meccanismo fece aumentare i costi di produzione e diminuire i profitti. Diminuì anche l’offerta e crebbero i prezzi dei beni agricoli, impoverendo ancor di più chi già era in una posizione marginale. Il settore agricolo non disponeva ancora di sufficienti innovazioni tecnologiche per reagire alla crisi ed entrò definitivamente in stallo.
Il rallentamento di tutto il sistema
Il blocco dell’incremento demografico rurale, in un sistema pre-industriale come quello basso medievale, era però la base della crescita dell’intero sistema. Anche le città cominciarono ad essere piuttosto sature ed incapaci di drenare il surplus umano proveniente dalle campagne, come facevano in precedenza. Un altro indice di questo rallentamento è una ridotta mobilità sociale, fenomeno che invece aveva caratterizzato il ‘200 e che era stato favorito dalla dinamica di forte crescita e dalla strutturazione sociale ed economica complessa e diversificata, soprattutto nelle città.
La crisi del capitale mercantile e finanziario
Andò in crisi anche il capitale mercantile, sia a causa di difficoltà congiunturali, come il blocco dell’espansione dei coltivi, le guerre e le ondate epidemiche, sia a causa di problemi strutturali di lungo periodo, come la “caduta tendenziale del saggio di profitto” mercantile. Con quest’espressione, si indica una misura percentuale che rileva il rendimento di un investimento. In questo caso, il profitto di un capitale investito in operazioni di scambi mercantili. Secondo questa legge, il profitto del capitale mercantile diminuisce man mano che il sistema degli scambi si ingrandisce e si struttura, a causa dell’accresciuta concorrenza, che innesca una forte compressione dei prezzi di vendita, con conseguenti contrazioni dei profitti.
Al capitale mercantile era in quel periodo strettamente legato quello finanziario, che entrò anch’esso in crisi. Effetto delle turbolenze finanziarie furono i gravi fallimenti tra fine ‘200 ed inizio ‘300 di alcune grandi compagnie, soprattutto italiane, come i Ricciardi di Lucca, i Bonsignori di Siena e i Bardi e Peruzzi di Firenze. Si trattava di compagnie sia con funzioni commerciali sia con funzioni finanziarie e creditizie. Dopo i loro crac e le conseguenti perdite di molti risparmiatori si verificò un restringimento del mercato del credito, che prima invece funzionava ed alimentava la crescita economica.
Le conseguenze negative della peste
La peste trecentesca dimezzò la popolazione europea e i suoi effetti negativi furono molti e gravi.
L’impatto dell’epidemia si tradusse anche in un forte malessere e stress sociale, visibile nelle grandi processioni di espiazione, in una temporanea perdita di fiducia nelle istituzioni e nelle teorie del complotto che si diffusero tra gli strati più bassi della popolazione contro ebrei e lebbrosi, figure marginali accusate di diffondere il morbo.
La ripresa demografica fu lentissima e difficoltosa, a causa delle numerose ondate successive di epidemia. Gli storici infatti stimano che furono necessari quasi tre secoli prima che la popolazione mondiale tornasse ai livelli pre-peste. Questo fenomeno è attestato dai livelli di popolamento registrati circa un secolo dopo la pandemia, a metà del XV secolo, che risultano in molte regioni sensibilmente inferiori rispetto al passato.
Inoltre, non cambiò solo la quantità di popolazione, ma anche la sua distribuzione sul territorio: numerosi villaggi furono abbandonati. Il caso più eclatante è quello tedesco: dei 170.000 insediamenti rurali del 1300 ben 40.000 risultano abbandonati nel 1500. In italia il fenomeno degli abbandoni rurali interessò soprattutto il Sud, con tassi di abbandono che in alcune aree raggiunsero il 50%.
I trend positivi
Nonostante i gravi effetti demografici ed economici, la “crisi del Trecento” è un periodo oggi considerato dagli studiosi in modo molto più ottimistico rispetto al passato. Infatti, benchè l’impatto demografico della peste fu elevatissimo, il contesto materiale rimase inalterato. Un numero molto minore di persone disponeva dunque della stessa quantità di beni agrari e materiali, di strutture produttive come mulini ed opifici e di infrastrutture come porti, strade e canali.
Inoltre, nonostante le gravi tensioni sociali, le strutture istituzionali non collassarono del tutto. Questo perché, a differenza di quanto sta accadendo oggi, l’epidemia non fu simultanea ovunque. L’Europa, benchè interconnessa, non era ancora attraversata da infrastrutture e trasporti rapidi ed efficienti come i nostri. Si verificò quindi una sfasatura di qualche anno nella diffusione del batterio tra le varie regioni europee e questo contribuì a non mandare completamente in tilt le strutture socio-economiche. La peste quindi non determinò un collasso del sistema, e nemmeno un suo blocco, Il sistema economico-sociale basso-medievale era infatti un sistema “robusto”, cioè policentrico e flessibile, in cui la risposta alla crisi fu diversa a seconda dei contesti.
Presero il via nell’epoca post peste alcuni trend positivi di lungo periodo che innescarono le basi del grande progresso che vivrà l’Europa tra XV e XVI secolo e che sarà l’origine della sua successiva espansione politica ed economica a livello globale.
Effetto eredità, diminuzione dei prezzi e aumento dei salari
Uno di questi fenomeni è l’ “effetto eredità”: dopo le ondate più drammatiche di epidemia, i sopravvissuti ereditarono dai congiunti morti beni e terre. Cambiò quindi la quantità di risorse materiali e di moneta circolante a disposizione di coloro che erano stati risparmiati dalla peste.Un altro cambiamento positivo fu quello della diminuzione dei prezzi, strettamente connesso con il forte calo demografico. Scesero soprattutto i prezzi dei cereali e dei beni di consumo. Anche in città cambiarono le dinamiche del mercato immobiliare, determinando una discesa dei prezzi degli affitti. Al calo dei prezzi si accompagna un aumento dei salari, a causa della minore disponibilità di forza lavoro dopo l’epidemia. L’accresciuto potere contrattuale dei lavoratori fu ostacolato in tutti i modi dai datori di lavoro e dai grandi proprietari terrieri, in accordo con le istituzioni. I loro sforzi però non riuscirono ad impedire un aumento salariale che sarebbe stato di lungo periodo.
I cambiamenti nelle campagne
Si verificarono numerosi cambiamenti anche nelle campagne, in cui il calo demografico determinò l’abbandono delle terre marginali. La popolazione si concentrò quindi nelle terre migliori e più fertili, sfruttando tutto il set di innovazioni tecniche che si erano diffuse nel periodo precedente e aumentando di molto la produttività pro-capite. Un altro fenomeno di questi anni fu la crisi della rendita fondiaria, a causa del calo dei prezzi del grano e dell’aumento dei salari. Alcuni proprietari terrieri optarono per uno spostamento di ampie zone agricole verso l’allevamento, settore produttivo che necessitava di minore forza lavoro e il cui mercato reggeva ancora dopo lo shock della peste, mentre altri concentrarono la produzione su colture specializzate, come ad esempio il luppolo per la birra. Questi processi determinarono grandi cambiamenti nel paesaggio agrario e la proletarizzazione di numerosi contadini e piccoli proprietari che andarono ad ingrossare le fila dei braccianti agricoli.
Nuove attitudini
Inoltre, il trauma psicologico derivante dall’enorme mortalità causata dalla peste determinò una maggiore avversità al rischio ed una tendenza alla spesa e al soddisfacimento immediato dei bisogni materiali. Aumentarono così i consumi e gli investimenti a breve termine.
I cambiamenti del capitale finanziario e mercantile
Il nuovo contesto portò anche a significative riorganizzazioni aziendali in ambito mercantile e finanziario: a causa della crescita del costo del lavoro e del calo dei prezzi, era un mondo di margini minori, in cui era sempre più necessario investire in miglioramenti per rimanere competitivi. Non è un caso quindi che emerga proprio in questi anni la figura del mercante imprenditore, in cui si unirono le funzioni prima separate del produttore e del mercante: controllando l’intero processo produttivo questi operatori economici monitoravano meglio la qualità del prodotto, introducendo innovazioni per comprimere i costi e guadagnare margini più elevati. I settori produttivi in cui questo processo funzionava meglio erano quelli caratterizzati dalla filiera lunga, come il tessile.
Anche le compagnie commerciali e finanziarie, in cui spesso i mercanti imprenditori operavano, si organizzarono in modo più efficiente, con filiali in tutta Europa, e si legarono sempre più al potere pubblico, che finanziavano e da cui si facevano tutelare. L’esempio più celebre è quello dei Medici, la famiglia più potente di Firenze che, da grossa compagnia finanziaria diventò la dinastia detentrice del potere pubblico. In questo contesto competitivo che lasciava fuori chi rimaneva indietro, migliorarono molto anche le tecniche gestionali e di rendicontazione e vennero poste le basi per alcune innovazioni presenti ancora oggi, come la pratica dell’ammortamento nei bilanci, la contabilità analitica, la partita doppia e l’assicurazione.
Una prima società dei consumi
Quest’insieme di processi determinò un miglioramento complessivo delle condizioni di vita dei ceti subalterni, tanto che gli studiosi hanno retrodatato almeno parzialmente l’origine della “società dei consumi” al tardo medioevo, mentre prima era collocata nel XVIII secolo. Per la prima volta infatti una parte rilevante della popolazione, anche nelle sue fasce medio-basse, aveva accesso a beni non di prima necessità, grazie alla crescita salari, al calo dei prezzi e all’accresciuta disponibilità di moneta. Si tratta di una grande svolta: non era più lo strato alto della società a trainare i consumi, ma lo facevano anche i ceti più umili, che godevano di un maggiore benessere e dalla cui domanda dipendeva la complessità economica e il volume delle merci in circolazione.
I paesi più dinamici e intraprendenti cominciarono in questo periodo a focalizzare la produzione e il commercio molto più su beni di massa, standardizzati e accessibili a fasce sempre più ampie di consumatori, rispetto ai prodotti di lusso destinati alle élites. Alcuni esempi sono la lana inglese, la birra e il pesce salato olandese. Aumentarono i consumi anche di carne, formaggio, pasta e vino, alimenti che iniziarono ad essere prodotti esplicitamente per il mercato. Ad esempio si privilegiarono i formaggi stagionati e la pasta secca, perché si conservavano meglio e potevano essere commercializzati anche sulle lunghe distanze.
Gli episodi di ribellione
Certo, non fu tutto rose e fiori. Il tardo medioevo fu anche un’epoca in cui aumentarono esponenzialmente gli episodi di ribellione, che esplosero nella seconda metà del Trecento. Espressione di un malessere profondo e comune, si diffusero in tutta Europa in contesti sia urbani che rurali e coinvolsero ampi territori. Un esempio noto è la rivolta fiorentina dei Ciompi del 1378. Tuttavia, non furono rivolte per i bisogni materiali di base, dettate dalla miseria. L’azione dei rivoltosi era invece diretta contro i tentativi reazionari di compressione dei salari dei signori, contro le nuove imposizioni fiscali e contro quelle condizioni di dipendenza personale meno onorevoli, che non si tolleravano più.
Inoltre, queste istanze erano sempre accompagnate da una domanda di maggiore partecipazione politica. In tutti i diversi episodi, originati da situazioni contingenti, c’era sempre una critica generale al sistema socio economico vigente. Dunque, in realtà le rivolte sono da considerare più come indice di progresso e speranza che come segnale di disperazione. Le classi subalterne avevano coscienza del maggiore peso economico che esercitavano nella società, e si ribellavano contro i tentativi di “restaurazione” dei ceti più elevati. Quasi tutti questi episodi fallirono, soprattutto nelle loro frange più estreme. Eppure, il tentativo di restaurazione venne bloccato e in alcuni casi le richieste dei rivoltosi furono soddisfatte: le cose non sarebbero tornate mai più com’erano prima della peste.
La società post-peste: bilancio e conseguenze economiche
Era una società caratterizzata da un crescente tasso di interconnettività, grazie allo sviluppo di numerose innovazioni gestionali e nuove tecnologie che ridussero i costi dei trasporti e favorirono la crescita economica. In questo modo, si strutturò un sistema commerciale integrato, in cui erano possibili specializzazioni regionali. Anche una competizione feroce per l’accesso ai mercati fu uno dei fattori trainanti della crescita degli scambi e delle innovazioni.
Era un ambiente “darwiniano”, in cui chi rimaneva indietro perdeva velocemente posizioni. L’Europa si strutturò quindi come un sistema complesso, che comprendeva al suo interno moltissime formazioni politiche, tutte diverse fra loro, in un quadro in perenne via di definizione. Proprio la complessità sistemica, la robustezza e la capacità di resistere in modo flessibile agli shock saranno i suoi elementi di forza.
Non a caso proprio in questo periodo presero il via le grandi esplorazioni geografiche che porranno l’Europa in un contesto mondiale. I viaggi oceanici però, furono “preparati” da anni di connettività regionali che avevano strutturato un sistema europeo in cui, seppur con fortissime differenze regionali, ogni area era in connessione con le altre. Il dato interessante è che questo sistema così dinamico e competitivo emerse dalla crisi trecentesca: l’Europa si riprese complessivamente bene dalla pandemia, sfruttando la peste come shock sistemico che ristrutturò e razionalizzò il sistema.
E oggi?
Anche il covid-19, come la peste trecentesca, è strettamente legato all’economia. L’epidemia odierna infatti ha portato con sé gravi conseguenze, derivanti soprattutto dalle misure di quarantena, che hanno causato nel nostro paese come altrove una sorta di stasi dell’economia. La differenza con la crisi trecentesca è che, almeno per il momento, non è prevista alcuna conseguenza positiva a livello economico per il post lock down.
Quali saranno le conseguenze economiche?
La crisi attuale è inoltre diversa dalle altre crisi economiche della storia recente, causate prevalentemente dalla finanza. Come spiega un articolo dell’Huffington Post, è la prima volta che una situazione del genere si diffonde così intensamente nell’intera economia globale. Nel passato, le crisi economiche hanno seguito un movimento “ad onde”, grazie al quale alcuni paesi ne uscivano prima, si riprendevano e facevano da volano per la ripresa degli altri. Oggi invece assistiamo ad una crisi simmetrica che si propaga rapidissima ovunque, per la quale è stata utilizzata l’espressione “economia di guerra”, proprio per indicare una situazione eccezionale e di emergenza.
Le misure prese dai governi, come ad esempio il decreto Cura Italia, hanno l’obiettivo di colmare il vuoto dell’economia in questo periodo di pausa forzata, configurandosi come “iniezioni di liquidità” ad imprese e famiglie e provando a limitare licenziamenti e fallimenti. Per l’Italia però, le prospettive sono negative: la crisi avrà infatti un impatto enorme sui milioni di lavoratori precari o in nero. Si stima infatti che la disoccupazione tornerà a superare il 10%.
Come spiega un articolo de Il Post, ciò che accadrà dopo la fine dell’emergenza sanitaria a livello economico è molto incerto. Nella migliore delle ipotesi, la recessione avrà la forma di una V, in cui al calo della domanda seguirà una sua impennata. Lo scenario opposto è quello di una ripresa ad L, in cui dopo il calo, la domanda rimarrà “anemica” anche dopo la fine della quarantena, e l’offerta sarà messa in crisi a causa dei danni subiti dalle catene di redistribuzione. In questo secondo scenario i supporti vitali forniti momentaneamente dalle istituzioni potrebbero prolungarsi ulteriormente, andando però a gravare sui debiti pubblici. Perciò, potrebbero esserci anche molte richieste di tagli di spesa, per rimettere i conti in ordine. In questo caso, alla soppressione degli stimoli all’economia seguirebbero un aumento della disoccupazione e dei fallimenti delle imprese, com’era avvenuto dopo la crisi del 2008.
Un po’ di dati
Le ultime previsioni del Fondo Monetario Internazionale e del World Economic Forum hanno rivelato l’impatto devastante della pandemia sull’economia mondiale, con conseguenze ancora più gravi nei paesi meridionali dell’Europa. Per l’Italia è stimato il “record” di caduta del Pil, prevista per il 9,1%, seguita da una risalita del 4,8% che però farebbe recuperare solo la metà dei livelli di reddito persi in questi mesi. Solo la Grecia farebbe peggio con un calo del 10%. Per la Germania si prevede una recessione del 7%, per la Francia del 7,2% e per la Spagna dell’8%. È certo dunque che la crisi sarà generale e che tutti paesi europei entreranno in recessione nel corso del 2020, con serie conseguenze in termini di contrazione del Pil, indebitamento e disoccupazione.
La perdita complessiva a livello mondiale nel biennio 2020-2021 sarà di 9mila miliardi di dollari, cifra superiore alla somma delle economie di Giappone e Germania, mentre il calo del Pil mondiale raggiungerà il 3%, seguito l’anno successivo da una ripresa del 5,8%. Si tratta di valori gravissimi, soprattutto se paragonati ai dati del 2009, anno in cui il calo del Pil globale si era attestato allo 0,1%. Siamo dunque di fronte ad una crisi davvero globale: secondo l’economista Gina Gopinath infatti, sia le economie avanzate, sia quelle in via di sviluppo e i mercati emergenti saranno in recessione.
Le possibili soluzioni
Proprio a causa della simultaneità e globalità di questa crisi, il Fondo monetario sembra schierarsi dalla parte di quei governi europei come Francia, Italia, Spagna e Portogallo che chiedono una risposta comune di fronte all’emergenza. Ci si è ormai resi conto infatti che il covid-19 non mette a repentaglio la stabilità finanziaria di quello o quel paese, ma dell’intera eurozona. Questa linea di pensiero ha portato in Europa all’approvazione di una serie di misure comunitarie volte al sostegno dell’economia dei paesi membri, tra le quali l’atteso Recovery Fund, un fondo comunitario garantito dal bilancio dell’Unione, da utilizzare per l’emissione dei cosiddetti recovery bonds. Queste obbligazioni farebbero ottenere liquidità, da distribuire poi in un secondo momento ai governi le cui economie più avranno subito la crisi. In questo modo, la condivisione del rischio sarebbe comune a tutti i paesi solo per il futuro, senza una mutualizzazione dei debiti del passato, operazione fortemente osteggiata dai paesi del Nord Europa.
Quali saranno le conseguenze della crisi sui conti pubblici?
Il deficit è la differenza tra le entrate e le uscite di uno stato. Quando le uscite superano le entrate, si parla di disavanzo, in caso contrario di avanzo. Il deficit è messo in rapporto al valore del Pil di un paese, per capire lo stato di salute delle finanze pubbliche. Più la percentuale è alta, e più queste stanno peggio. Per l’Italia si stima che il rapporto deficit/Pil in seguito alla crisi legata al covid cresca all’8,3%. I dati sono peggiori negli altri paesi europei, con il 9,2% in Francia, il 9,5% in Spagna e addirittura il 15,4% negli Stati Uniti. Solo la Germania sembrerebbe in grado di contenere l’impatto della crisi sulla finanza pubblica: il disavanzo dovrebbe salire solo al 5,5% del Pil quest’anno per poi ridiscendere all’1,2% l’anno prossimo.
Somiglianze con la crisi del 2008
Gli esperti hanno elaborato alcuni trend simili a quelli conseguenti la crisi del 2007-2008. Infatti, si prevede che, come avvenne allora, aumenterà il divario tra Usa ed Europa. Per gli Stati Uniti infatti le prospettive economiche sono leggermente meno negative: la recessione dovrebbe infatti far calare il reddito nazionale del 5.9%, con un recupero del 4,7% nel 2021. Secondo questi dati, gli Usa sembrano in grado di recuperare in un anno quanto perso, mentre per l’eurozona si stimano almeno due anni di ripresa dalla pandemia.
Inoltre, proprio come dodici anni fa, i paesi che secondo le stime reagiranno meglio alla crisi saranno le potenze emergenti asiatiche, e soprattutto la Cina. Secondo il World Economic Outlook infatti, l’economia cinese anche nel 2020 riuscirà ad evitare una contrazione e raggiungerà una lieve crescita dell’1,2%, forse grazie al piano di rilancio dell’economia per cui sono stati stanziati 7mila miliardi di yuan, pari all’8% del reddito nazionale.
Il covid-19 sembra quindi accelerare uno spostamento degli equilibri economici internazionali verso Oriente. In questo contesto, l’Europa sembra ancora più in difficoltà degli Usa e l’Italia ancora più indietro rispetto alle altre grandi economie dell’unione monetaria.
Tuttavia, come informa lo stesso Fondo Monetario Internazionale, queste stime sono basate sulla supposizione che da luglio in avanti le misure di quarantena si interrompano gradualmente. In realtà dunque, c’è un’estrema incertezza sia sulle dimensioni della recessione che sulle possibilità di ripresa: alcuni elementi che costituiscono le premesse per il rimbalzo dell’economia del 2021 potrebbero non concretizzarsi e la ripresa sarebbe ancora più lenta. Tutto dipende da come si svilupperà la pandemia nei prossimi mesi e da quali conseguenze finanziarie porterà con sé.
Bibliografia:
A. Cortonesi e Luciano Palermo. La prima espansione economica europea: secoli XI-XV. Carocci Editore. 2009
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