Autore: Dave Eggers
Opera: A Heartbreaking Work of Staggering Genius
(italiano: L’opera struggente di un formidabile genio , Milano,
Mondadori, 2001, trad. Giuseppe Strazzeri)
Anno: 2000
Paese: Stati Uniti d’America
Nel 2001, a poco più di trent’anni, mentre negli USA spadroneggiavano titani del postmodernismo quali David Foster Wallace e Thomas Pynchon, in questa sua opera d’esordio Dave Eggers, sotto alcuni aspetti, osò spingersi ancor più in là: sciorinando fin dall’inizio una serie di esilaranti “regole e suggerimenti per apprezzare al meglio questo libro” in cui esortava, fra l’altro, a saltarne senza problemi una buona parte; inserendo nella prefazione alcuni passi espunti dal seguito; sviluppando una lunghissima serie d’improbabili “Ringraziamenti”; tracciando
perfino, a beneficio del lettore, una mappa della struttura del testo e dei suoi simboli.
Solo in seconda battuta avviava la microepopea dei fratelli – uno, l’io narrante, molto maggiore d’età – dopo gli ultimi giorni di vita della madre, fra descrizioni iperrealistiche del cancro che l’andava devastando e, nell’agile incedere del testo, flash back articolati o estemporanei, esasperate espansioni narrative o brutali compressioni, qualche volta anche effetti stranianti generati dal dislocamento dei personaggi al difuori di se stessi (il fratellino che a un certo punto sviluppa riflessioni altamente esistenziali, il tale che protesta per il ruolo umiliante che gli è stata assegnato nell’opera).
A rendere ancor meno scontato il tutto, un costante scardinamento dell’assetto diacronico, funzionale a quell’introspezione innervata di comicità (la spassosa scena della colica), umorismo (le pulsioni suicide di un amico) e satira (la fauna umana della California, le stramberie dei programmi tv, la rivista freak, la comunità dei genitori a scuola…) che costituisce la cifra di base dell’opera.
Allo stesso modo, in perfetta sintonia sia con la tecnica narrativa adottata, sia con il lavoro sulla struttura presente in questa “vera, dolorosa ed evocativa storia personale”, affiora da queste pagine una triade di temi-chiave: il velleitarismo, il senso di precarietà e la “semiperenne condizione di caos interiore” che terrebbe vivo – nelle sue stesse parole – il protagonista. Egli sente di essere il modello di una “gioventù che si trova a uno snodo”, soffocato dal “reticolo” sociale.
E se nella prima sezione aveva trionfalmente concepito se stesso e l’amato fratellino Toph come una coppia di giovani eroi “tragici, insoliti e vivi” che, persi entrambi i genitori in un solo mese, venivano trascinati verso il mondo da un senso di onnipotenza, con l’arrivo delle responsabilità eccoli dibattersi sotto il peso della vita. Vogliamo credere che Italo Calvino elogerebbe questa aerea dialettica peso-leggerezza. Come pure la surreale descrizione eggersiana di San Francisco città senza “nessuna logica, costruita di pongo e bastoncini, Vinavil e carta colorata. Sembra opera di fate, di elfi, di bimbi felici con una scatola di pastelli nuovi”.
Daniele Rocca
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