My name is Ozymandias, king of kings:
Look on my works, ye Mighty, and despair!”
Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away.
Si dice che la condanna della grandezza sia la sua brevità. Nulla di straordinario, di veramente straordinario, può durare. Arriveranno il tempo, l’oblio, il declino, altre immensità, e lo condanneranno alla decadenza. Pulvis et umbra sumus. Chi può sapere se gli dèi ci concederanno di vivere un altro giorno?
Eppure, nonostante la nostra condanna, non rinunciamo a provarci, non riusciamo a restare impassibili di fronte al fascino della gloria, dell’eternità. La inseguiamo senza posa, al punto di non accorgerci di ciò che perdiamo:
Devo andare a Roma; nella nostra cittadina
tornerò tra un anno con la fama;
non piangere; vedi, mia amata,
farò a Roma il mio capolavoro.
Egli lo disse; se ne andò nell’ebbrezza
attraverso quel mondo in cui sperava;
tuttavia a lui sembrava che la sua anima
sentisse spesso un rimprovero interiore.
La forte irrequietezza lo portò a casa,
egli formò con gli occhi umidi
la sua povera e pallida amata nella bara,
e questo – questo fu il suo capolavoro.
“Il giovane scultore” di Rilke cerca la gloria nell’arte, e perde l’amore. Kurtz cerca la ricchezza, e trova “The horror!”. Gatsby cerca la fortuna e perde l’amore, e poi cerca l’amore e perde la vita. Jordan Belfort cerca tutto, e perde tutto.
Il Berlusconi di Sorrentino cerca il potere, e perde la serenità. Vuole il potere politico, economico, sociale. Vuole aver la capacità di sorprendere e far innamorare sempre di più Veronica Lario. E cercando la totalità, l’assolutezza, perde ciò che gli aveva consentito di arrivare fino a quel punto: la sua enorme costruzione. Era convinto, o forse cercava di ingannarsi, di essere capace di tutto, e di poter tendere sempre a un di più. Rimanendo però schiavo di se stesso, di quel personaggio infallibile che si dimostrava, e che mostrava, di essere. Incapace di dire basta, di accorgersi del proprio declino, inevitabile, diventa vittima di una sconfitta, forse la prima, ma la principale e definitiva.
La grandezza dell’uomo è così evidente che si deduce dalla sua stessa miseria. Infatti, ciò che negli animali è natura, nell’uomo lo chiamiamo miseria, riconoscendo così che, essendo oggi la sua natura simile a quella degli animali, è decaduto da una natura miglior, che un tempo gli era propria.
Infatti, chi si sente infelice di non essere re, se non un re spodestato?
Quanta tristezza nel declino. È forse più doloroso per chi guarda che per chi lo vive. Lo spettatore ne vede l’inevitabilità, il protagonista coglie solo la speranza. Speranza non infondata, se solo fosse in grado di divenire meno grande, di divenire normale: lì sì, potrebbe sopravvivere. Ma, nato per essere grande e terribile, δεινός, tale da strozzare due enormi serpenti nella culla, l’eroe non sa moderarsi.
Allora lo spettatore non può che sperare nella sua morte, che dev’essere grandiosa, come lui, come loro. Giulietta e Romeo non sarebbero mai potuti invecchiare, senza ridursi alla normalità. L’unworthiest hand sarebbe diventata la mano del tempo, priva di sentimento, inesorabile, indegna per la grandezza. E noi che guardiamo ci ritroviamo a sperare nella loro morte, quasi inconsciamente, perché sia l’eccelso a porre fine all’eccelso, e non la normalità.
La condanna di Achille. Brevis et fulgens. Tutto il resto stia lontano dall’epica.