Esattamente nove anni fa, nel novembre del 2011, finiva l’era Berlusconi. Dopo 20 anni di governo (con qualche interruzione), il leader di Popolo della Libertà lasciava Palazzo Chigi tra i giubili, le urla e i festeggiamenti delle persone scese in piazza. L’Italia si ritrovò così nuovamente senza una guida, per lo più in uno dei periodi più difficili dalla fine della guerra. In quegli stessi giorni veniva proclamato senatore a vita uno tra i più stimati economisti d’Europa: Mario Monti. Ma quel posto al Senato rappresentava l’anticamera della presidenza del Consiglio: il 13 novembre il neosenatore è incaricato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di formare il nuovo governo. O, come lui stesso lo ha definito nel suo primo discorso al senato, il governo dell’impegno nazionale.
Una rapida scalata
Mario Monti nasce a Varese nel 1943, in piena Seconda guerra mondiale. Dopo aver conseguito una laurea in Economia alla Luigi Bocconi di Milano, si trasferisce negli Stati Uniti. Qui diviene allievo del premio Nobel per l’economia James Tobin. Figlio di banchiere, nel 1970 inizia la sua carriera da professore universitario. Prima a Trento, poi a Torino e infine nuovamente alla Bocconi, proprio lì dove si era laureato. In poco tempo scala le gerarchie all’interno dell’università milanese, divenendo subito Direttore dell’Istituto di Economia Politica e in seguito Rettore. Nel 1994 ottiene la carica di Presidente della stessa Bocconi, ruolo che ricopre ininterrottamente da 16 anni.
Non soltanto a livello accademico, Mario Monti comincia ad attirare su di sé l’attenzione del mondo della politica. Già negli anni ’80 ottiene importanti ruoli a livello parlamentare, ma il salto avviene ancora una volta nel 1994. Lo stesso anno in cui viene proclamato Rettore alla Bocconi, entra a far parte della Commissione Europea, della quale diverrà poi Presidente del 1999. Si dovrà aspettare poi il 2011 per rivederlo in Parlamento, anno in cui Giorgio Napolitano lo nomina senatore a vita e lo incarica di formare un nuovo governo.
Il governo dell’impegno nazionale
Più che un compito, si può parlare di una vera e propria missione. Perché il periodo in cui Mario Monti diventa Premier è probabilmente uno dei più difficili della storia repubblicana italiana. Il paese, profondamente scosso dalla crisi economica del 2008, viene travolto anche da una crisi istituzionale. L’era berlusconiana finisce ufficialmente il 14 novembre 2011, giorno in cui il leader dell’allora Popolo della Libertà si reca al Quirinale per rassegnare le proprie dimissioni. È proprio in questi anni che comincia a svilupparsi quel forte sentimento di antipolitica, di rinnovamento delle istituzioni, che di lì a poco darà vita alla nuova generazione di movimenti e partiti. In questo fragile panorama politico Mario Monti muove i primi passi da Premier.
Nel suo primo discorso al Senato, il presidente della Bocconi esprime piena fiducia nel ruolo delle due camere, chiede unità e collaborazione per quello che lui stesso definisce “il governo dell’impegno nazionale”. Il nuovo esecutivo nasce subito con una spada di Damocle sulla testa: la crisi economica. Ma oltre ad essa, la sfiducia generata dal ventennio berlusconiano rischia di scatenare una vera e propria crisi istituzionale. I primi interventi del governo Monti sono tutti di natura economica. Il nuovo Premier fin da subito utilizza il proprio peso istituzionale all’interno dell’Europa, tentando di preservare la stabilità economica continentale e arrestare lo spread italiano in crescita.
Le riforme
Soltanto un mese dopo la sua nascita, il nuovo governa emana il decreto salva-Italia. La manovra si caratterizza subito per una particolarità: colpisce un po’ tutti i comparti sociali. Dalla cosiddetta ‘casta’, ovvero le fasce sociali più ricche, ai pensionati e alle famiglie. Vengono istituite tasse speciali su patrimoni più alti e sui beni di lusso. Anche la politica viene coinvolta: vengono depotenziate le provincie e abolite le giunte provinciali, per un risparmio stimato di 500 milioni di euro. Ma il decreto è anche ampiamente criticato, in quanto va a colpire le fasce medio-basse del paese. Viene anticipata l’entrata in vigore dell’IMU e istituita una tassa sulla prima casa. Vengono aumentate Iva e accise sulla benzina. Ma l’ambito sicuramente più colpito e discusso è quello delle pensioni. Il decreto impone il metodo contributivo come calcolo per il pensionamento, innalzando l’età minima per entrare in pensione: si passa così ai 62 anni di età, ma in determinati casi si può raggiungere anche la quota dei 70 anni.
La manovra di Monti, dunque, non risparmia nessuno e il rapporto tra l’economista e l’opinione pubblica comincia ad incrinarsi. Le categorie socialmente più deboli, le più colpite dalla crisi del 2008, speravano in politiche più sociali ed eque, ma al contrario sono rimaste anch’esse coinvolte dal decreto. L’innalzamento dell’età pensionabile ha determinato un contraccolpo pure per l’occupazione giovanile. Il nuovo sistema pensionistico portava un risparmio per le casse dello stato, ma non sufficiente per calmare il crescente malumore sia dei giovani che dei più anziani.
Pareri opposti
Nel valutare le riforme promosse dal governo Monti, va innanzitutto ricordato che siamo di fronte a un governo “d’emergenza”. Fu un esecutivo composto prevalentemente da tecnici e non da politici, con l’obiettivo di scongiurare un declino economico che sembrava inarrestabile. I risultati sono sicuramente discutibili così come gli eccessivi tagli, tanto che alcuni oggi individuano in Monti il colpevole per l’inadeguatezza della nostra sanità di fronte alla pandemia. Secondo quotidianosanità.it, il governo Monti avrebbe tagliato un totali di 6,8 miliardi al sistema sanitario.
Oggi c’è anche chi lo considera come colui che ha salvato l’Italia dal fallimento, quando il paese rischiava di seguire il destino della Grecia. La sanità, il pensionamento e le tasse sono temi delicati per il cittadino e questo sicuramente ha inciso nella percezione pubblica sul periodo da premier di Mario Monti. Ma, a volte, in determinate situazioni di difficoltà vanno prese decisioni sofferte e impopolari (o “brutali” come lui stesso ha definito le sue riforme). Soprattutto se, alla lunga, possono avere effetti positivi.