È noto come, ormai da anni, la natalità sia in calo nel nostro paese e che chi fa figli ne fa pochi, e spesso in età abbastanza avanzata. Gli italiani non hanno più voglia di diventare genitori? Non ci sono più i giovani di una volta che fanno sacrifici per creare una famiglia?
Per provare a capire meglio questa situazione, abbiamo raccolto un po’ di dati relativi ai tassi di natalità e denatalità e alle intenzioni di fertilità degli italiani, considerando in particolar modo la condizione femminile.
Come sono i dati di natalità e denatalità per l’Italia?
La natalità è definibile come il rapporto tra il numero dei nati vivi e l’ammontare numerico dell’intera popolazione.
I dati per l’Italia sono negativi già da anni. Secondo le stime dell’Istat il calo è osservabile dal 2008 e ha raggiunto un valore del -27%. La denatalità è connessa alle modificazioni della popolazione femminile in età fertile, tradizionalmente fissata tra i 15 e i 49 anni, fascia d’età in cui le donne italiane sono sempre meno numerose. Se infatti da un lato, le numerose baby boomers, nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta, hanno terminato la fase riproduttiva, dall’altro le generazioni più giovani sono sempre meno consistenti. Per queste ultime si parla infatti di baby-bust, termine che indica la fase di forte calo demografico del ventennio 1976-1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995. Successivamente, dagli anni 2000 in poi, grazie all’apporto positivo dell’immigrazione e al conseguente ingresso di popolazione giovane in Italia, gli effetti del baby bust si sono parzialmente ridotti. Tuttavia, man mano che la popolazione straniera in Italia ha acquisito le abitudini di vita del paese di arrivo anche il tasso di fecondità delle donne immigrate è diminuito.
L’ultimo report dell’ISTAT sulla natalità e la fecondità della popolazione residente, pubblicato a fine 2020, ma relativo all’anno 2019, non fa eccezione. Le nascite sono state 420.084, quasi 20 mila in meno rispetto all’anno precedente e oltre 156 mila in meno rispetto al 2008. Fanno meno figli soprattutto le coppie italiane: i nati da genitori entrambi italiani sono stati 327.724 nel 2019, oltre 156 mila in meno rispetto al 2008.
Non solo il confronto interno rispetto al 2008 ma anche quello con l’Europa è impietoso: secondo i dati provvisori Eurostat aggiornati al 9 ottobre 2020 e relativi al 2019, l’Italia ha il tasso di natalità più basso fra i 27 membri dell’Unione europea con 7 nascite ogni mille persone, mentre il tasso medio Ue è di 9,5 nati vivi ogni mille persone.
Anche per il 2020 il trend è negativo. Secondo un report dell’ISTAT di febbraio, il numero di bambini nati nel periodo tra gennaio e agosto 2020 (e dunque concepiti prima del coronavirus, tra aprile e novembre 2019) aveva già fatto registrare un calo del 2,3% rispetto allo stesso periodo nel 2019. A ciò si dovranno poi aggiungere gli effetti del Covid-19, osservabili solamente a partire da dicembre 2020, primo mese considerabile per questi calcoli, dato che i bambini nati nei mesi precedenti sono stati concepiti prima delll’arrivo del coronavirus in Italia. Non si hanno ancora dati precisi sulle nascite di novembre e dicembre 2020, ma si prevede un ulteriore decrescita del numero delle nascite anche per tutto il 2021.
Il tasso di fecondità, cioè il numero medio di figli per donna, è in calo e si attesta a 1,27: era 1,29 nel 2018 e 1,46 nel 2010. Secondo un recente report di Save the children che indaga la maternità in Italia nel 2020, con questo livello già nel 2018 l’Italia era al terzultimo posto in Europa, appena prima di Spagna e Malta (rispettivamente, 1,26 e 1,23) e ben lontana da Francia e Svezia, in cima alla classifica con 1,88 e 1,761 . Tuttavia, con questo numero si considerano tutte le donne residenti in Italia, mentre se si restringe il campo alle sole donne con cittadinanza italiana il numero medio di figli scende a 1,18, valore più basso di sempre secondo l’ISTAT.
Anche l’età media al parto è in crescita e nel 2019 ha toccato i 32,1 anni, aumentando di due anni rispetto al 1995 e portando le italiane in testa alla classifica europea delle neomamme più anziane. Ancora di più cresce l’età media alla nascita del primo figlio, che si attesta a 31,3 anni nel 2019 (3,3 anni in più rispetto al 1995).
Perché i dati sulla natalità sono così negativi?
È vero che le ragazze di oggi non vogliono più diventare mamme in giovane età? In realtà non è così. Sembra infatti che il desiderio di avere figli sia rimasto inalterato nelle donne italiane, ma che sia sempre più complesso realizzarlo.
Il fertility gap
A questo proposito si parla di fertility gap, ovvero il divario tra il numero dei figli desiderato (intenzioni di fertilità) e il numero reale di figli avuti (tasso di fertilità).
In un recente studio le demografe Eva Beaujouan e Caroline Berghammer hanno confrontato il fertility gap in venti nazioni fra Europa e Stati Uniti. Hanno intervistato numerose donne nate nella prima metà degli anni 70, riguardo alle loro intenzioni di fertilità nei primi anni 90, quando avevano circa 20-24 anni e ai successivi tassi di fertilità intorno ai 40 anni. In tutti i paesi le donne hanno effettivamente avuto meno figli di quanti ne desideravano da giovani, ma le differenze tra i due valori sono molto marcate a livello locale: il fertility gap è molto più ampio nell’Europa meridionale.
L’Italia è una delle nazioni che rendono più difficile trasformare in realtà il desiderio di fertilità: le italiane hanno dichiarato di aver desiderato da giovani un numero di figli solo leggermente inferiore ai 2,1 necessari perché la popolazione non diminuisca. Tuttavia, il numero di figli effettivi delle 40enni di oggi è decisamente minore, circa intorno a 1,4. Solo Spagna e Grecia hanno un fertility gap più elevato. La nazione che riesce a soddisfare meglio le intenzioni di fertilità è invece la Francia, che riporta il valore più basso tra i paesi considerati. Secondo le autrici, le differenze rilevate da Paese a Paese inducono a pensare che le intenzioni di fertilità, le successive effettive dimensioni della famiglia e il conseguente divario tra questi due valori siano influenzati soprattutto da fattori come la legislazione a sostegno della genitorialità, le politiche di conciliazione tra vita privata e professionale e infine i livelli di occupazione femminile.
Si hanno intenzioni di fertilità diverse a seconda delle età.
È interessante considerare anche i risultati dello “Studio Nazionale Fertilità”, promosso dal Ministero della Salute e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, riportato nel rapporto di Save the children. Questa ricerca si è conclusa a fine 2018 e ha avuto lo scopo di raccogliere informazioni sulla salute sessuale e riproduttiva per orientare la programmazione di interventi a sostegno della fertilità in Italia. Lo studio ha coinvolto adolescenti, giovani ed adulti e ha messo in luce come le intenzioni di avere figli cambino a seconda dell’età degli intervistati. Tra gli adolescenti il 78% dichiara di voler avere figli nel proprio futuro; il 7% tra di loro dichiara di non volerne, mentre il 15% non sa. Per il 70% degli intervistati l’età giusta per diventare genitori è prima dei 30 anni. Considerando invece i giovani adulti, rappresentati da circa 14 mila studenti universitari con un’età media di 22 anni, solo il 63% dichiara di voler figli in futuro, il 7% di non volerne, il 22% è incerto e l’8% non ci ha ancora pensato. Guardando invece al gruppo degli adulti (oltre 21 mila persone tra i 18 e i 49 anni), la quota di persone senza figli che dichiara di volerne in futuro scende al 58%, mentre il 17% dice di non volerne, il 10% è indeciso e l’11% non ci ha ancora pensato. Per il 41% degli intervistati le principali motivazioni che inducono a rinunciare o a posticipare la genitorialità sono quelle legate a fattori economici e lavorativi unitamente alla carenza di sostegni e servizi a supporto delle famiglie con figli, soprattutto quando manca l’aiuto da parte della famiglia. A queste difficoltà si aggiunge la paura, soprattutto per le madri, di perdere il posto all’arrivo di un figlio o il timore di subire conseguenze negative sul luogo di lavoro.
A questo proposito si parla anche di sindrome da positicipo: quando, in attesa di un lavoro stabile, si aspettano anche molti anni prima di iniziare a provare ad avere figli. Di conseguenza l’età elevata dei genitori rende più difficile realizzare le intenzioni di fertilità che si avevano da giovani, avendo dunque meno figli di quanto si vorrebbe.
Considerando questi dati è chiaro che il problema di bassa fecondità esistente in Italia non deriva tanto dal minor desiderio di figli dei giovani, quanto dalla differenza tra quello che i giovani vorrebbero e quello che riescono a fare. Come sostiene Marco Albertini, professore di sociologia all’università di Bologna intervistato da Il sole 24 ore:
“L’idea che non ci sono più i giovani di una volta che fanno sacrifici non funziona. Sicché più che politiche che stimolino il desiderio di figli, pare che siano necessarie politiche che consentano ai giovani adulti italiani di avere il numero di figli che desidererebbero avere”.
Perché è così elevato il fertility gap in Italia?
È difficile rispondere a questa domanda, ma per inquadrare meglio il problema è utile considerare qualche altro indice, che descrive la situazione femminile sul lavoro e in relazione alla nascita dei figli.
Il gender pay gap
Con questo termine si descrive la differenza di salario a parità di competenze tra uomini e donne. In Italia nel 2020 questo indice ha ricominciato ad allargarsi, interrompendo una tendenza positiva di progressiva riduzione delle disparità visibile fino al 2018.
Come riportato da un articolo di Business Insider, nel terzo trimestre dello scorso anno la busta paga delle lavoratrici italiane è calata dell’8,7% rispetto a quella dei colleghi uomini, mentre nel secondo trimestre del 2019 questo dato si attestava al 7,9%.
Confrontando la situazione italiana con quella degli altri paesi europei il premier Mario Draghi ha recentemente dichiarato che
“L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa”.
Tuttavia, bisogna usare qualche accortezza parlando di questo parametro. Infatti, sebbene il gender pay gap delle donne italiane raggiunga un valore del 5% a fronte di una media Ue del 15%, questo dato rappresenta solo un aspetto minoritario della disparità di retribuzione complessiva tra uomini e donne, perché misura solo la differenza tra i salari orari medi. Se invece al posto della retribuzione oraria si prende in considerazione la retribuzione annua, la forbice si allarga esponenzialmente, dato che il numero di ore lavorate dalle donne è minore rispetto ai colleghi uomini. Anche il divario tra il tasso di occupazione maschile e femminile in Italia è uno dei più alti del vecchio continente, con 18 punti percentuali su una media europea di 10.
Dunque, dato che il semplice gender pay gap non è l’indicatore più realistico per misurare il divario retributivo di genere, l’Eurostat ha messo a punto il gender overall earnings gap. Quest’indicatore calcola l’impatto combinato di tre fattori sul reddito mensile medio di uomini e donne in età lavorativa: guadagno orario, ore retribuite e tasso di occupazione. L’Unione europea presenta un valore medio del gender overall earnings gap del 40%, mentre l’Italia del 44%. Ciò non significa però che in Italia la discriminazione salariale nei confronti delle lavoratrici sia del 44%: a questo valore bisogna infatti sottrarre i dati relativi alle diverse caratteristiche che influiscono sulla produttività di donne e uomini. Ciò che rimane a parità di condizioni è la discriminazione salariale di genere, che, secondo le stime dell’Eurostat, in Italia si attesta al 12%.
Le donne lasciano il lavoro all’arrivo di un figlio?
Nonostante in Italia l’occupazione femminile sia molto cresciuta negli ultimi 40 anni e il divario di genere si sia ridotto da 41 a 18 punti percentuali, nel nostro Paese il tasso di occupazione femminile è ancora uno dei più bassi in Europa: già nel 2019 si attestava intorno al 50,1% contro il 68% degli uomini.
Inoltre, sono numerosissime le donne che consegnano le dimissioni all’arrivo di un figlio: secondo i dati dell’Ispettorato del Lavoro (Inl) nel 2019 sono state 37.611 le neo mamme che hanno lasciato il lavoro, mentre nell’anno precedente erano state 35.963. I papà che hanno lasciato il posto sono stati invece 13.947. Nella maggior parte dei casi si tratta di dimissioni volontarie, ma dietro c’è sempre la stessa problematica, ovvero la complessa conciliazione dei tempi dedicati alla vita privata e alla famiglia con quelli del lavoro, che secondo l’analisi dell’Ispettorato è stata la principale causa di dimissioni per 21 mila donne.
Covid-19: una crisi di genere
A causa della crisi del Covid-19 i tassi di denatalità, il divario occupazionale e tutti gli altri indici qui presi in esame si stanno ulteriormente allargando, con forti ripercussioni sulla vita delle donne.
Sono 456 mila gli occupati in meno registrati dall’ISTAT in Italia nel 2020. Tuttavia, è l’occupazione femminile ad aver risentito maggiormente delle conseguenze del Covid-19: è calata del 2,5%, mentre quella maschile solo del 1,5%. Questi numeri sono dovuti soprattutto all’alta percentuale di lavoratrici nel settore terziario e dei servizi (come ad esempio commercio e turismo) dove più della metà del totale dei posti persi apparteneva a donne. A dicembre si sono raggiunti dati allarmanti: in quel mese infatti gli occupati sono diminuiti di 101.000 unità, di cui 99 mila donne, che sono quindi il 99% di chi ha perso il lavoro.
Questi gravissimi dati confermano che la crisi da Covid-19 è una crisi di genere. Si parla infatti di Shecession – dal pronome femminile inglese she e da recession– ovvero una recessione, che ha ripercussioni soprattutto sulla popolazione femminile. Infatti, oltre a maggiori rischi di licenziamento o di diminuzione dello stipendio, le lavoratrici, maggiormente occupate rispetto agli uomini nel settore dell’assistenza sanitaria e sociale, in mansioni che difficilmente si possono svolgere a distanza, sono molto più soggette al rischio di contrarre il virus e di ammalarsi. Inoltre, le donne sono anche più impiegate in lavori sottopagati e in nero, senza alcuna possibilità di beneficiare delle misure di sicurezza sociale.
Infine, a causa del lockdown, le donne che possono lavorare in smart working sono spesso incaricate di svolgere compiti non retribuiti, come il supporto ai figli in didattica a distanza o la cura di parenti anziani o malati, in aggiunta al lavoro domestico, tutte mansioni che portano ad un forte sovraccarico mentale e fisico.