Cosa sono le start-up? Quante sono in Italia e quanto vale veramente questa realtà di cui sentiamo parlare così spesso? Perché si dovrebbe investire in una start-up? Perché si dà tanto peso a micro-aziende che normalmente impiegano poco più di due o tre addetti con un fatturato medio minore di quello di un negozio d’ortofrutta? Andiamo quindi ad analizzare più nello specifico quello che sono le società definite “innovative”, per le quali lo Stato italiano ha pure riservato un’intera disciplina ad hoc.
I numeri delle start-up in Italia
Da dati Istat aggiornati al 30 settembre del 2019 il numero delle startup presenti nel nostro Paese si attesta a 10630. Il dato ha visto un aumento dell’1,8% solo negli ultimi tre mesi e ci sono prospettive di crescita ancora più promettenti. Il valore della produzione delle start-up ha sfiorato quota 1,2 miliardi di euro. Dal punto di vista territoriale, la Lombardia è la regione che ne ospita il maggior numero – con Milano polo principale. La seguono Lazio, Emilia-Romagna e Veneto. Dal punto di vista occupazionale il lavoro svolto dai soci stessi è nettamente prevalente rispetto a quello dei lavoratori con contratti subordinati. Tuttavia in totale si è arrivato ad occupare quasi 60.000 persone – dieci volte il numero di dipendenti impiegati in una multinazionale come Mediaset.
In termini di fatturato, se considerato nel suo totale, la percentuale di start-up con utile negativo supera leggermente quelle con reddito netto positivo. Se però si va ad analizzare solo le seconde, troviamo un rapporto utili/patrimonio netto ed una remunerazione media degli investimenti di quasi dieci punti percentuali più alta rispetto alla media delle società di capitali di riferimento. Anche in termini di valore aggiunto, le start-up che generano utili riescono a raggiungere risultati ben più alti rispetto alle società di capitali.
Quali prospettive hanno? Perché investire in una start-up?
Certo i dati non sono male. Non si può però sapere a priori quale sarà la startup che farà utile e quale no. Bisogna poi considerare che circa il 50% di quest’ultime ha un ciclo di vita inferiore ai tre anni, portando alla perdita quasi completa del capitale investito. Che cosa rende quindi importante questo settore, tanto da riservarvi una disciplina legale facilitata (e.g. non è necessario l’atto notarile in costituzione e per eventuali variazioni successive, agevolazioni fiscali per chi investe, incentivi alle assunzioni, etc.…) e tanto da aver permesso la creazione dello “Startup Europe Partnership” volto ad incentivare lo sviluppo di imprese innovative?
La risposta è semplice: perché al di fuori dell’Italia la situazione è ben diversa. Infatti, dal punto di vista degli investimenti privati il tricolore si attesta solo ventesimo in Europa, dietroPpaesi come Francia, Danimarca, Svezia e Irlanda. Allo stesso modo, il numero di scale-up – società innovative che hanno già sviluppato un proprio prodotto ed un business model, operanti sul mercato e che presentano caratteristiche di crescita prospera – è nettamente inferiore a quella di tutti i principali paesi europei. Secondo uno studio pubblicato dal giornale “La Repubblica”, questo fenomeno è dovuto in parte allo scarso valore del rapporto italiano di investimenti su PIL. E scarso è un eufemismo, visto che l’Italia ricopre l’ultima posizione.
Non è un caso se dall’inizio della grande recessione ad oggi il nostro Paese, in confronto ai principali Stati industrializzati, abbia realizzato uno dei peggiori tassi di crescita in termini di PIL, produttività e PIL pro-capite (dati Istat ed Eurostat). Questa tendenza non può essere ricondotta alla sola mancanza di start-up. Certo è però che basare un’economia sulla stagnazione e non sull’innovazione, sulla ricerca e sulla miglioria, porta ad un sempre maggior divario rispetto a coloro che fino a quindici, venti anni fa erano partner commerciali di pari livello.
Perché molte start-up falliscono?
Se si va ad analizzare la situazione nello specifico e si cerca di capire come mai una grossa porzione di queste aziende innovative non sopravvive più di qualche anno di vita, si trova nella mancanza di fondi la risposta principale. Infatti, circa il 26% dei fallimenti deriva direttamente da questo fenomeno. Non è una novità che la maggior parte dei cittadini sia caratterialmente influenzato da storia e tradizioni. Di certo questo è un nostro punto di forza, che ci ha permesso di contraddistinguerci come il Paese più bello del mondo, guidato da un’eleganza storica, punto cardine di arte, storia, cucina e poesia per il mondo intero. Dall’altra parte ha instaurato una paura inconscia verso il diverso, il nuovo e l’innovativo.
Mettersi nei panni di un imprenditore ora è un po’ più chiaro, pensando ai milioni di ostacoli culturali che, oltre ai normali meccanismi di mercato, deve affrontare per rendere la sua idea un’idea di successo. Si sa come in Italia le scoperte arrivino sempre dieci anni dopo. Lo abbiamo vissuto con i cellulari, con i metodi d’istruzione, e con lo smart working. La mancanza di capitali a supporto di quelle piccole realtà che si affacciano ad un panorama rivoluzionario è quindi letale nel breve periodo.
Allo stesso modo, un altro 25% è tradito dalla mancanza di un business operativo vincente. La visione della scienza economica solo come cultura generale e non come dottrina è un grosso rischio. Può infatti portare, vista la ricorrente mancanza di finanziamenti, a tagli nell’organico ritenuti superflui, che superflui però non sono.
Meglio un uovo oggi che una gallina domani. Questo è il trend che da vent’anni a questa parte ha caratterizzato il panorama di investimenti italiano. Non è infatti un caso che siamo uno dei Paesi sviluppati con il più basso tasso di iscrizioni universitarie, con il più basso tasso di formazione professionale – la produttività per agente è rimasta invariata negli ultimi 20 anni – e con il risparmio privato più alto, ma con il tasso di educazione finanziaria più basso.
Quali prospettive ci sono per chi vuole investire nelle start-up?
Ora, detta così sembra che la situazione sia totalmente tragica, ma non è tutto nero. A differenza della decade scorsa, l’intervento del private equity e del crowdfunding, sta dando una grossa mano allo sviluppo di queste realtà. Aiuto che rimane ancora troppo limitato in conto governativo, ma che sta vedendo muovere alcuni passi da parte del settore Corporate. Già prima del problema col Covid-19, le risorse destinate alle start-up erano in aumento, coinvolgendo sia il settore privato che quello finanziario. Entrambi infatti erano alla ricerca di rendimenti di lungo periodo che potessero essere più soddisfacenti dei tassi di mercato, i quali sono andati via via diminuendo per atto delle politiche monetarie dei principali paesi del mondo.
Inoltre, secondo uno studio della PGIM – società di investimenti finanziari globali – tra le varie rivoluzioni causate dal Covid-19, una di queste sarà la tendenza verso le imprese definite “weightless”. Queste sono formate da modelli di business leggeri in termini di capitali, caratterizzate da innovazione tecnologica, dati, proprietà intellettuali, R&S e investimenti in software. Risulta chiaro come siano tutte realtà direttamente collegate con le start-up.
Start-up e in-app marketing
Innovazione è sinonimo di novità, e tra i tanti settori che hanno sentito la scossa più significativa dall’inizio della terza rivoluzione industriale c’è il marketing. Correva l’anno 2002 quanto la neurologia ha cominciato a prendere parte nelle strategie di vendita. Da quel giorno c’è stata una vera e propria svolta, portando l’arte della comunicazione a livelli mai visti prima. Inutile sarebbe sottolineare come le più promettenti società di neuromarketing ad oggi esistenti siano nate proprio come società innovative.
La loro diffusione ha costruito le fondamenta per una vera e propria rivoluzione di questo settore, spostando capitali pubblicitari dal mondo di stampa e televisione a quello dell’internet media. Questa realtà si è vista crescere la quota di mercato dall’8% al 38% nel giro degli ultimi dieci anni. L’internet media che non si compone dei soli siti web ma che è fortemente spinto dalle tre milioni di applicazioni che stanno assumendo, giorno dopo giorno, un ruolo da protagonista.
Il marketing in-app sta suscitando interesse nelle analisi di investimento delle aziende ed il motivo è molto semplice. La mente umana, nonostante cerchiamo di convincerci del contrario, non è affatto razionale e può essere influenzata con facilità. Le emozioni che proviamo mentre ci approcciamo ad un determinato prodotto si rivelano determinanti per il giudizio dello stesso. Per fare un esempio; non è un caso che all’interno dei più grandi festival di musica al mondo siano presenti insegne, banner e riferimenti di ogni tipo a grossi marchi che con salti, musica ed amore non c’entrano proprio niente. Il nostro cervello, fortemente influenzato dal piacevole ambiente in cui si trova, riconoscerà in futuro quel brand associandovi un’immagine molto positiva. Lo stesso fenomeno accade nelle applicazioni, le quali però possono raggiungere un bacino di utenza cinque, dieci o anche cento volte maggiore di quello precedentemente indicato.
Investire nel futuro
Da italiani abbiamo fatto nascere il più grande impero della storia, siamo stati i fautori di movimenti artistici di livello come l’umanesimo prima ed il rinascimento dopo ed avremmo potuto scoprire l’America se solo avessimo creduto un po’ di più in noi. Ad oggi milioni di innovatori scappano altrove per sviluppare le loro idee, dove ci sono capitali, supporto e riconoscenza. I numeri ce li abbiamo e sono promettenti. Continuiamo però a tarpare le ali a quello che sarà il modello di business prevalente già dai prossimi anni. E nemmeno ce ne rendiamo conto. Il passato è passato, ora bisogna pensare al futuro.