Diceva Nietzesche e cantavano i Nomadi che dio fosse morto. Non è così, possiamo affermare che sia andato in vacanza e trovandosi così bene sulle bianche spiagge del paradiso (che credo sia la Sardegna degli dei) si sia scordato del tempo che era passato. Ma non poteva immaginare quanto il ritorno sulla terra sarebbe stato traumatico. Non che nell’800, quando aveva deciso di partire, fosse un idillio, ma almeno non c’era il problema climatico. Sì, perché tra tutti i problemi del nuovo mondo che dio si trova ad affrontare, quello che gli sembra peggiore è la devastazione dell’ecosistema. Uragani, frane, scioglimento dei ghiacci e non per ultimo virus mutati. Anche un altro problema si fa sempre più attuale: la scarsità di cibo e la produzione non sostenibile di carne e pesce. Proprio quest’ultimo incide sul rapido deterioramento, cui assistiamo, dei sistemi oceanici. Gli oceani sono grandi serbatoi d’acqua e costituiscono il nodo più importante nel ciclo di questa sulla terra: da essi l’acqua evapora e sale nell’atmosfera per poi cadere a terra sotto forma di precipitazioni, infine torna agli oceani attraverso i fiumi.
Gli oceani sono anche essenziali serbatoi di calore, che assorbono l’energia irradiata dal Sole e la rilasciano lentamente. Per questo motivo, sono il più importante fattore di controllo del clima sulla Terra: la loro presenza attenua gli sbalzi di temperatura diurni e stagionali, mantenendo le temperature dell’aria entro valori tollerabili per gli organismi viventi. Possiamo considerarli il nostro termostato planetario. Sono, inoltre, di grande importanza per la vita dell’uomo. Dalle acque oceaniche si ricavano infatti grandi quantità di alimenti (pesci, molluschi, crostacei, alghe). Senza contare le quantità enormi di petrolio e metano che sono contenute nei giacimenti sottomarini.
Chi meglio di Gesù può essere in grado di porre rimedio a questa situazione? – pensa Dio. Potrebbe, soprattutto, concentrarsi sull’impoverimento della fauna marina che, oltre a rappresentare una fonte di cibo e sostentamento per molti, è anche un meccanismo fondamentale per il funzionamento degli oceani. Basta moltiplicare i pesci, niente che non sia già stato fatto! Una volta giunto tra noi mortali, però, Gesù capisce che trovare una soluzione non sarà così facile. Occorrerebbe al pianeta Terra, in questa situazione, un processo abbastanza rapido che unisca una legislazione a tutela dell’ambiente ad una mirata sensibilizzazione dei cittadini. Parte dalla seconda e inizia ad informarsi tramite libri, articoli e documentari. In particolare, ne scopre uno che lo lascia sbigottito: Seaspiracy. Leggendo su internet, capisce che non ha lasciato indignato e di stucco solo lui ma molte altre persone, tra cui vip come Kim Kardashan che si ripromette, su Twitter, di non mangiare mai più pesce’’. Non potendo essere da meno, anche Gesù si accoda al suo esempio. Ma, confrontandosi con amici e leggendo articoli di critica, capisce che Seaspiracy ha dei problemi di fonti, dati e nella narrazione di questi.
Il sottovalutato problema della pesca
Sicuramente Seaspiracy non ha paura di affrontare il potere dato che critica dall’unione europea, alle imprese di pesca, alle scelte di consumo dei paesi asiatici fino ad arrivare a mettere in dubbio le posizioni di molte ONG che da anni affrontano il problema degli oceani. Tabrizi (regista e voce narrante) le taccia di reticenza e le accusa di focalizzarsi solo su alcuni problemi, ad esempio l’inquinamento causato dalle cannucce, non guardando all’impatto che provoca la pesca, poiché finanziate da multinazionali del settore. In una società neoliberista come quella dei paesi sviluppati, il luogo del processo decisionale viene spostato dal governo statale all’individuo attraverso il mercato. Potremmo cambiare il mondo solo con i consumi invece che attraverso la politica. Ma questo sarebbe possibile solo se ci fosse assicurata un’informazione ben più puntuale di quella che forniscono molti media. La maggior parte dei consumatori si trova in uno stato di ignoranza rispetto all’impatto dei loro consumi, e anche quelli meglio informati sicuramente ignorano alcuni aspetti della sostenibilità. La spinta del film non è malvagia: viene affrontato il tema della pesca che spesso passa in sordina rispetto al problema dei rifiuti gettati in mare, l’unico fattore di inquinamento marino, basandosi sulla narrazione mainstream. Le potenti multinazionali della pesca minacciano di privare la popolazione locale della loro sussistenza. Molte “riserve marine” sono una farsa totale, poiché la pesca industriale è ancora consentita al loro interno. Nell’Unione europea, l’intensità della pesca a strascico nelle cosiddette aree protette è maggiore rispetto ai luoghi non protetti. “Pesce sostenibile” spesso non è nulla del genere. La pesca commerciale è la principale causa della morte e del declino degli animali marini. Può anche essere estremamente crudele nei confronti dell’uomo: la schiavitù e altri gravi sfruttamenti del lavoro dilagano. Come dimostra il lavoro del Prof. Callum Roberts, le popolazioni di pesci e altri animali marini erano enormemente maggiori prima dell’inizio della pesca industriale e lo stato dei fondali marini, in molte aree, completamente diverso. Per dirlo con le parole di Monbiot, editorialista del Guardian:’’ È tempo di vedere gli oceani sotto una nuova luce: trattare il pesce non come frutti di mare ma come fauna selvatica; vedere le loro società non come scorte, ma come popolazioni; e le ragnatele alimentari marine non come pesca, ma come ecosistemi. È ora di vedere la loro esistenza come una meraviglia della natura, piuttosto che un’opportunità di sfruttamento. È ora di ridefinire il nostro rapporto con il pianeta blu.’’
Dati- non dati
Sebbene le buone intenzioni, il documentario fallisce nel fornire una lente critica al fruitore, nonostante si ponga come lo smascheratore dei potenti. Seaspiracy si inserisce in quel filone di sensazionalismo che vende tantissimo (anche sui giornali) e fa presa soprattutto sul web. Il documentario travisa alcuni dati e diffonde mezze verità per incalzare l’indignazione di chi lo guarda. Il primo dato sbagliato citato dal documentario è quello secondo cui entro il 2048 gli oceani saranno vuoti, continuando a depredarli a questa rapidità. Il documento a cui si fa riferimento è molto datato e gli stessi autori lo hanno poi ritrattato, scherzando sull’organizzare una cena a base di pesce per tutti dopo il 2048. Inoltre, viene fatta confusione sui termini bycatch e discards. I primi sono pesci intrappolati nelle reti che tuttavia non erano l’obbiettivo principale, mentre i secondi sono pesci e altri animali che dopo essere stati catturati vengono scartati. I discards rappresentano il 10% della pesca mondiale, un enorme fattore di spreco, se pensiamo a intere nazioni che non hanno abbastanza cibo per far vivere una vita dignitosa ai propri cittadini. È, però, un dato più basso rispetto a quello suggerito nel documentario (48%), che invece rappresenta i bycatch. Un’altra informazione fuorviante presentataci è l’inquinamento di plastica nell’oceano, composto soprattutto di reti da pesca. Questo poteva essere vero negli anni ’80, specialmente nel Pacifico settentrionale dove sono stati condotti i primi studi. Oggi circa l’80% della plastica che si trova negli oceani è composta da bottiglie, imballaggi per il cibo e pneumatici. ‘’Solo’’ il 20% proviene dalle reti da pesca, al contrario di come è riportato nel film. Il punto focale della denuncia di Tabrizi confluisce in una soluzione: smettere di mangiare pesce. Molti studiosi, però, ritengono che rinunciare al pesce non salverà gli oceani dai problemi che la pesca industriale crea. In un prossimo futuro possiamo immaginare che la scelta del vegetarianismo o del veganismo sarà adottata dai più (probabilmente costretti per mancanza di alternative), ma è una scelta che per ora, presuppone uno stato di ricchezza come quello dei paesi privilegiati. La spinta di Seaspiracy per un futuro senza frutti di mare non include le persone emarginate che sarebbero colpite se un tale movimento prendesse piede, poiché per loro i frutti del mare oltre che fonte di nutrimento, sono anche frutto di lavoro e fonte di guadagno. la questione forse più controversa del documentario è il fatto che la pesca sostenibile, secondo il regista, non esista. Nella scienza della pesca viene usato il termine rendimento massimo sostenibile che determina le catture massime che possono essere estratte in modo tollerabile dall’ecosistema. Gli esempi di pesca non sostenibile sono troppi ma vi sono anche esempi positivi che si basano sui dati scientifici. Per citarne due: la pesca del nasello europeo e la passera gialla nel New England.
Pericolosa, inoltre è la narrativa del richiamare all’azione il singolo e di puntare sul senso di colpa del cittadino occidentale che può rinunciare al pesce e che viene indotto a farlo, deresponsabilizzando il campo legislativo e governativo. Sono i legislatori e i capi di stato e dell’unione europea che dovrebbero affiancare agli sforzi individuali leggi che tutelino l’ambiente, nonché rinforzare quelle già esistenti. Sono i governi che prendono le decisioni che modificano gli ecosistemi oceanici. Il 90%della pesca globale è controllata da soli 30 paesi con l’aggiunta dell’unione europea. Calzante è la metafora che adotta Daniel Pauly, un biologo marino, che su Vox scrive: Proprio come la lotta contro il tabacco in luoghi pubblici chiusi è stata vinta dai divieti di fumo, e non dagli appelli ai fumatori, la lotta contro la pesca illegale e gli altri imbrogli dell’industria della pesca sarà vinta da azioni politiche rivolte ai governi, non da appelli ai vegani a New York, Londra o Vancouver.
Come sarebbe facile se esistessero i miracoli! Lo stesso Gesù si rende conto che non ne può nulla e che moltiplicare i pesci servirà a ben poco se non si compie, prima di tutto, un miracolo umano.