Intoccabile. Ecco come ognuno di noi si sentiva undici mesi fa. Forse avremmo dovuto iniziare a preoccuparci, o perlomeno informarci, poco dopo il Capodanno.
Infatti, i primi giorni dell’anno nuovo, ancora intorpiditi e appesantiti dalle feste, abbiamo iniziato a sentir parlare in modo insistente di una certa Wuhan: città poco conosciuta, ma che vanta il primato di essere la più popolata della Cina centrale, fondamentale perno di commercio e scambi con l’Occidente.
No, i media non avevano cominciato ad elogiarne il primato, ma ad informarci di una certa “polmonite anomala” che stava iniziando a colpirne la popolazione.
A metà gennaio, l’OMS ha divulgato ufficialmente la notizia fornendo tutte le istruzioni del caso e dichiarando che non sarebbe stato necessario adottare restrizioni ai viaggi per e dalla Cina. Poche settimane dopo, la stessa Organizzazione ha annunciato la diversità e contagiosità di questo virus, a causa del quale si è vista costretta a dichiarare lo stato di “emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale”.
Abbiamo però dovuto attendere ben un mese perché arrivasse il nome della nuova malattia, ovvero Covid-19: Co e vi per indicare la famiglia dei coronavirus, d per indicare la malattia (disease in inglese) e infine 19 per sottolinearne l’anno della scoperta. Dare un nome alle cose significa farle esistere, restituire loro un volto e quindi gettare una luce nuova sul loro essere. Ma, in questo caso, il periodo che si è aperto a febbraio è più assimilabile al buio di una caverna che alla luminosità di una scoperta.
Abbandonato. Ecco come ogni studente si sente in questo momento. Siamo stati catapultati nella stessa situazione di fine febbraio, quando un inatteso prolungamento delle vacanze di carnevale ci ha regalato un eterno weekend di gioia e noncuranza, di cui tutti avevamo bisogno, ma che, a lungo andare, avremmo detestato.
La didattica a distanza ha profondamente segnato le nostre vite mostrandoci una nuova dimensione scolastica, algida ma smart. La novità ha un fascino a cui difficilmente possiamo resistere, ma, terminata la prima fase di stupore, abbiamo preso coscienza di quanto rimpiangessimo la vera scuola. Dopotutto, come direbbe Goethe, un arcobaleno che dura un quarto d’ora non lo si guarda più.
Ci siamo ritrovati lontani dai nostri compagni di classe, la nostra seconda famiglia. Amici con cui vivevamo sei ore di scuola, con cui condividevamo ansia, dolore e gioia si sono trasformati in immagini proiettate su uno schermo. I nostri professori, anche loro lasciati a loro stessi, hanno dovuto stravolgere la propria metodologia didattica, ripartendo daccapo, inermi di fronte alla peggior crisi dal dopoguerra.
Sopportati questi assurdi e interminabili mesi lontani da tutto e tutti, a giugno ci siamo illusi che il peggio fosse passato, di essere finalmente tornati ad una pseudo normalità. L’estate ci ha trascinati nel “male indolore della spensieratezza”, irrimediabilmente confusi abbiamo reagito abbandonandoci alla libertà di cui da troppo tempo ci sentivamo privi. Settembre è iniziato nel migliore dei modi. Con la magra consolazione di aver acquisito delle competenze digitali, abbiamo ricominciato l’anno con le nuove misure, lontani ma ormai non più soli.
Giorno dopo giorno abbiamo sempre più creduto di poterci riprendere le nostre vite, a tal punto da ricominciare a lamentarci di quanto siano faticose. Tutti nel profondo eravamo consapevoli che questa situazione non fosse altro che una fantomatica illusione. Una bellissima bugia che ci ha accompagnati fino alla fine di ottobre, più del previsto.
Ora l’Italia è divisa in zone gialle, arancioni e rosse, che, ironia della sorte, sono proprio i colori dell’autunno. Io vivo in una delle regioni con il bollettino di contagi più alto, tanto da essersi guadagnata podio e coccarda rossa. Siamo in lockdown. Ma ora qualcosa in noi è cambiato.
Come ha affermato una cinquantina di anni fa un noto scrittore: una società fondata sul lavoro non sogna che il riposo. Siamo da sempre schiavi di una routine soverchiante a cui, inconsciamente, lasciamo determinare ciò che noi definiamo “normalità”. Ora che è di nuovo “tutto fermo” ci stiamo accorgendo, giorno dopo giorno, di non riuscire a soddisfare quello spasmodico bisogno di sentirci attivi che caratterizza da sempre le nostre vite.
Come nel primo lockdown, noi studenti siamo imprigionati nelle stesse case che, prima di tutto questo, rappresentavano un porto sicuro in cui attraccare dopo una giornata lunga e sfibrante. Un porto da cui ripartire il prima possibile per ributtarci nel mare tempestoso di una vita scandita da ritmi frenetici e deliranti.
Ecco che questo cambio radicale di prospettiva ci ha profondamente angosciati, destabilizzati. Cosa ne sarà di noi? Cosa succederà una volta che tutto tornerà alla normalità? Non ci stavamo già avvicinando alla normalità? Ma cos’è davvero questa normalità?
Penso che il senso di angoscia nasca principalmente dal non avere nuovamente delle risposte certe, non intravedere una possibile soluzione all’orizzonte, ma soprattutto dal rendersi sempre più conto che un ritorno a ciò che era prima non è assolutamente auspicabile.
Ecco che muoiono gli schemi consolidati nel tempo; muore l’idea di Stato, di collettività, di equilibrio cittadino. Il nostro pensiero individuale mostra la sua fallacità, i suoi nervi scoperti. Finché non capiremo di essere una parte che esiste solo in virtù di un tutto, nulla cambierà e quest’ansia che ci divora sarà pronta a ripresentarsi all’improvviso, lasciandoci nuovamente inermi.
Siamo stati abituati troppo bene: abbiamo pensato di poter guidare a nostro piacimento questa grande macchina chiamata Mondo. Non è così, e ad insegnarcelo è stato un nemico invisibile che, silenziosamente, miete ogni giorno più vittime. Siamo disarmati.
Abbiamo paura di perdere i nostri nonni, i nostri genitori, i nostri amici e ci sentiamo impotenti di fronte a tutto questo dolore dilagante. Non pensavo di doverlo dire a diciassette anni, ma oggi il monito di Heidegger è più “attuale” che mai. Se facessimo nostro il pensiero di questo grande filosofo tedesco, saremmo in grado di riconoscere nella morte ciò che dà realmente senso alla vita.
Infatti la piena consapevolezza di un’esistenza finita ci porterebbe a dare il giusto valore ad ogni singolo giorno, alleggerendoci dall’angoscia e dalla meschinità che ci circondano, finalmente liberi di diventare noi stessi.
E tu? Come stai vivendo la didattica a distanza? Raccontacelo, inviando una mail a [email protected] È un tema che ci sta molto a cuore, a cui abbiamo dedicato anche un episodio del nostro podcast. Ascolta qui i podcast di WeGather!