Anche le navi diventano rifiuti da smaltire al termine della loro vita, dopo circa 30 anni di attività. Tuttavia, solo una minima percentuale delle imbarcazioni operanti nel mondo è demolita in modo sicuro e non dannoso per l’ambiente. La maggior parte delle rottamazioni avviene invece in paesi in via di sviluppo, dove compagnie prive di scrupoli sfruttano manodopera a basso costo, senza rispettare alcun protocollo di sicurezza, risparmiando notevolmente sui costi. È lo “shipbreaking”.
Dove e come si smantellano le navi
Nel 2019 sono state 674 le navi oceaniche della flotta mercantile mondiale, come petroliere, piattaforme offshore, navi da crociera e da carico, vendute ai cantieri di demolizione. Di queste, 469 sono state demolite su alcune spiagge del Bangladesh, dell’India e del Pakistan. Sono i dati forniti dall’ong Shipbreaking Platform, che riunisce 18 organizzazioni in tutto il mondo con lo scopo di contrastare attivamente gli abusi e gli sfruttamenti di questa attività nei paesi sottosviluppati.

Chittagong, Bangladesh Mike Hettwer/National Geographic
Il paese in cui ha avuto luogo il maggior numero di demolizioni nel 2019 è il Bangladesh, con 236 imbarcazioni, seguito dall’India con 200, e dalla Turchia con 107. In tutta Europa ne sono state smaltite solo 29. Gli Emirati Arabi Uniti e la Grecia sono invece i maggiori venditori di navi ai cantieri di rottamazione sud asiatici.
I costi ambientali e umani dello shipbreaking sono devastanti: gli operai demoliscono le navi a mani nude, senza alcun dispositivo di sicurezza. Gli incidenti sono all’ordine del giorno, così come le malattie sviluppate in seguito all’esposizione ai materiali tossici. Inoltre, dal momento che le navi vengono “spiaggiate” su litorali sabbiosi con l’aiuto dell’alta marea, questi “cantieri” a cielo aperto diventano rapidamente grossi hotspot inquinanti, con danni irreparabili agli ecosistemi e alle comunità locali. Le località più conosciute sono Alang in India, Gadani in Pakistan e Chattogram in Bangladesh, più nota come Chittogang.
La legislazione sullo smantellamento delle navi
Il processo di “spiaggiamento” delle navi (beaching) è contro le leggi internazionali. A livello europeo, la norma che stabilisce come demolire le navi è l’European Union Ship Recycling Regulation 1257/2013, che segue la Convenzione di Hong Kong del 2009 dell’International Maritime Organization (l’IMO, organismo dell’ONU che legifera su navigazione e sicurezza in mare). Questo regolamento stila un elenco di impianti di riciclaggio in cui le navi battenti bandiera di uno Stato membro devono essere demolite secondo i criteri di sicurezza e scarso impatto ambientale. Tutti i cantieri di demolizione navale possono richiedere di essere inclusi in questa lista: non sono esclusi a priori quelli che demoliscono su una spiaggia, ma il loro riconoscimento è molto difficile.
Le bandiere “di convenienza”
Tuttavia, quasi nessuna delle navi che arrivano nei “cantieri” asiatici batte bandiera di uno stato europeo, anche se rinomate compagnie di navigazione occidentali ne sono state per anni armatori o gestori. Infatti, le compagnie marittime vendono le imbarcazioni a intermediari, che, agendo come cash buyer, pagano subito grosse somme ai proprietari e cambiano nome e bandiera alla nave, scegliendo tra alcune bandiere “di convenienza”, per poi mandarla ai cantieri asiatici.
Le bandiere tipiche della parte finale della vita delle navi sono infatti quelle di Stati come Comore (Africa), Niue (Oceania), Palau, St Kitts and Nevis, quasi mai utilizzate dalle compagnie marittime durante la vita commerciale, a causa della scarsa applicazione di questi paesi della legislazione marittima internazionale. In questo modo, potendo cambiare la bandiera della nave subito prima della demolizione, gli armatori aggirano facilmente le limitazioni e risparmiano, preferendo l’economico smantellamento ad Alang, Chittagong e Gadani ai costosi standard occidentali. L’attuale legislazione navale, prevalentemente basata proprio sulla bandiera, diventa così uno strumento per camuffare le compagnie occidentali proprietarie delle navi e rottamare nel modo più economico le imbarcazioni, trascurando la sicurezza e la salute dei lavoratori e le condizioni ambientali dei paesi più poveri.
Fino a 30 anni fa le operazioni di shipbreaking si svolgevano in Canada, Usa ed Europa. Dagli anni ’80 però, nel contesto di crescita dei costi di lavoro e aumento delle regolamentazioni ambientali, le compagnie marittime cominciarono a delocalizzare quest’operazione nei paesi sottosviluppati, favorendo gli interessi degli imprenditori locali.
Le operazioni di beaching e shipbreaking
Lo “spiaggiamento” è una complessa operazione che consiste nel condurre la nave alla massima velocità, sfruttando la presenza dell’alta marea, per posizionarla il più internamente possibile al litorale, dove viene tenuta in posizione sul bagnasciuga con entrambe le ancore per evitare che venga riportata in mare dalla successiva alta marea o dalla corrente.
Si formano così sulle spiagge enormi cantieri a cielo aperto, mete di centinaia di lavoratori migranti, provenienti dalle aree rurali più povere del Bangladesh, dell’India e del Pakistan. Lo shipbreaking infatti, nonostante gli operai vengano pagati pochi dollari al giorno, prevede salari più alti di altri lavori, che consentono ai lavoratori di spedire denaro alla famiglia.
Una nave impegna circa 500 persone e sei mesi per essere completamente rottamata. Il lavoro di demolizione è quasi interamente manuale e le condizioni di lavoro sono pessime. La temperatura si aggira sui 50 gradi Celsius: i lavoratori tagliano cavi, tubature e lastre di acciaio attraverso gli scafi delle navi con la fiamma ossidrica, demolendo le immense imbarcazioni pezzo per pezzo. Gli imprenditori locali in seguito rivendono l’acciaio e tutto ciò che si recupera dallo svuotamento di ogni area delle navi, come mobili, materassi, legname, cavi.
Costi umani dello shipbreaking
Gran parte dei lavoratori delle spiagge asiatiche sono migranti scarsamente qualificati, sfruttati a centinaia per demolire a mano le navi. Non esiste alcuna forma di sicurezza sul lavoro né di previdenza sociale. Le uniche protezioni sono, se va bene, cappellini da baseball, stivali di gomma, guanti e sciarpe avvolte attorno al viso. Inoltre spesso gli operai, pur non avendo alcuna competenza, non ricevono istruzioni sul lavoro da compiere e tagliano a pezzi le navi dall’interno e dall’esterno basandosi solo sul proprio buonsenso e apprendendo dai colleghi più esperti. All’interno della nave nessuno sa quando un pezzo di ferro cadrà o quale area è sicura. I rischi di incidenti mortali sono altissimi: le ustioni causate dalla fiamma ossidrica, le esplosioni di gas e le cadute di pezzi di acciaio causano morti e feriti ogni anno.
I dati sui morti
Secondo l’International Labour Organization infatti, lo shipbreaking è uno dei lavori più pericolosi al mondo. I morti nei cantieri dal 2009 a oggi sono stati 398, secondo i dati dell’ong Shipbreaking Platform. Nel 2019 le vittime di incidenti mortali sono state 26, di cui 24 solo a Chittogang, in Bangladesh. Almeno altri 24 lavoratori sono rimasti gravemente feriti. Anche gli impatti a lungo termine sulla salute sono gravi: senza dispositivi di protezione adeguati, l’esposizione prolungata ai fumi e ai materiali tossici rilasciati durante le operazioni di rottamazione causa sia fastidi immediati sia tumori e malattie che si sviluppano 15-20 anni dopo.
I rischi per la salute sono aumentati dalle condizioni abitative: la maggior parte dei lavoratori vive in baraccopoli senza acqua corrente né latrine, dove sono diffuse malattie come il colera, la poliomielite e l’aids.

Mike Hettwer/National Geographic
Le testimonianze degli operai raccontano che i datori di lavoro, a causa della crescente competizione con altri paesi sottosviluppati e dell’innalzamento dei costi, spingono i lavoratori a ritmi sempre più intensi e veloci, trascurando ancora di più le condizioni di sicurezza. L’azione dei sindacati è debole e gli operai non denunciano, perché minacciati o per timore di perdere il posto e lo stipendio, essenziale per mantenere le famiglie lontane e per offrire loro migliori possibilità di vita.
Costi ambientali dello shipbreaking
L’inquinamento di queste località raggiunge livelli estremamente elevati. Le navi per essere demolite sono ancorate su spiagge fangose, in cui le fuoriuscite di materiali tossici (come petrolio, amianto, mercurio, pcb) hanno un corridoio diretto verso il mare e le acque interne danneggiando irreparabilmente l’ecosistema locale.Le navi rottamate oggi infatti sono state costruite negli anni 70, prima che l’amianto e il pcb fossero vietati. Ad ogni taglio questi si diffondono nell’ambiente circostante, impregnando sabbia, polvere e aria delle tonnellate di materiali tossici presenti all’interno delle navi.
In Bangladesh, ad esempio, centinaia di mangrovie protette sono state abbattute per fare spazio alle navi. L’abbattimento di questi alberi ha conseguenze molto negative, poiché sono essenziali nel fragile ecosistema, come ultima barriera contro gli effetti devastanti di tifoni e alluvioni.
Lavoro minorile nello shipbreaking
Nonostante le condizioni pericolose e la grande resistenza fisica necessaria per questo lavoro, sono numerosi i bambini e gli adolescenti che lavorano nei cantieri di demolizione.
In Bangladesh è illegale assumere minori in lavori pericolosi come lo shipbreaking, ma uno studio recente di Muhammod Shaheen Chowdhury, professore di legge all’università di Chittagong, rivela che il 13% dei lavoratori ha un’età inferiore ai 18 anni.
La maggior parte di loro lavora come “aiuto-tagliatore”, assistendo gli adulti nell’uso della fiamma ossidrica per tagliare i pezzi di ferro, sia sul bagnasciuga che all’interno della nave. Altri lavorano invece come “spazzini”, rimuovendo dalle porzioni di nave trascinate sulla spiaggia fango e morchie, ovvero liquidi oleosi che si formano tra i motori della sala macchine, composti da acqua, oli, grassi e benzina. Mentre gli aiuto tagliatori riescono ad avere un equipaggiamento di base come stivali di gomma e guanti, i bambini incaricati della pulizia non hanno nessuna protezione.
I rischi per i minori
I ragazzi sono particolarmente vulnerabili all’ambiente tossico: molti di loro lamentano dolori e fastidi dopo i turni di lavoro, come mal di testa e vertigini. Anche il rischio di cancro dovuto all’esposizione ai fumi tossici e all’amianto è molto alto, così come quello di ferite mortali. Siccome sfruttare i bambini è illegale, nessuno è assunto regolarmente, e in caso di incidenti le spese mediche gravano sulle famiglie. Nonostante la demolizione di navi sia considerato uno dei lavori più pericolosi al mondo, nessun datore di lavoro è mai stato ritenuto responsabile del lavoro minorile, anche nei casi di bambini gravemente feriti o morti.
Spesso sono le famiglie che mandano i bambini a lavorare nei cantieri, per far fronte alla miseria che mette a repentaglio la loro stessa sopravvivenza. In questo settore i salari sono più elevati e inoltre i datori di lavoro spesso chiudono un occhio sul minimo d’età stabilito per legge. Tuttavia, un’altra causa fondamentale della diffusione del lavoro minorile è che i bambini sono una manodopera molto più economica, facilmente controllabile e meno incline a difendere i propri diritti, e dunque preferibile per i datori di lavoro.
Prospettive di soluzione
La missione della ong Shipbreaking Platform è quella di sensibilizzare governi e compagnie marittime su questo tema, denunciando le pratiche illegali di shipbreaking, impegnandosi a trovare soluzioni sostenibili a livello globale basate sul rispetto dei diritti dei lavoratori e dei principi di giustizia ambientale e offrendo la propria consulenza ad armatori e legislatori.
Gli esperti dell’ong sostengono che la transizione verso uno smaltimento delle navi che rispetti i parametri ambientali e di sicurezza potrebbe essere possibile entro il 2030. E’ necessario impedire il business dello shipbreaking, incentivando la demolizione in bacini di carenaggio e banchine situate in regioni con la capacità di stoccare e smaltire correttamente i rifiuti tossici e garantendo la sicurezza dei lavoratori. Inoltre, le navi dovrebbero essere già costruite secondo criteri eco-friendly, diminuendo la quantità di materiali pericolosi al loro interno. Secondo l’ong, i leader finanziari, le compagnie e le autorità politiche rivestono un ruolo cruciale nell’ideazione di soluzioni di riciclaggio sostenibili.
È necessario però che anche le autorità rendano più severi i regolamenti e impediscano le “scappatoie” che consentono agli armatori di aggirare la legislazione. Un’ipotesi è quella di stabilire a livello europeo un incentivo finanziario, per promuovere il riciclaggio delle navi in modo sicuro e rispettoso dell’ambiente, che vada oltre la giurisdizione basata sulla bandiera e che aiuti tutte le navi a ridurre le spese di una demolizione sostenibile.