1.200.000 tonnellate di Co2 emesse ogni anno, un quarto delle sostanze chimiche prodotte nel mondo per la produzione di poliestere e altri materiali derivati, un’incidenza del 20% sullo spreco di acqua a livello globale. Oltre 80 miliardi di capi prodotti ogni anno. Fino a 50 collezioni e capsule all’anno. L’85% di quanto viene prodotto, di cui solo l’1% riciclato, giace in discariche.
Questi sono solo alcuni dei numeri impressionanti che ruotano attorno al mondo della fast fashion.
È ormai noto come questa sia in breve tempo diventata una delle industrie più inquinanti del mondo, seconda solo a quella del petrolio. Non si tratta però esclusivamente di un problema di emissioni. La fast fashion impatta anche su aspetti come l’inquinamento del suolo e delle acque, dovuto ai pesticidi utilizzati per la coltivazione del cotone e di altre fibre naturali o alla dispersione nell’ambiente delle sostanze altamente inquinanti con cui vengono trattati i tessuti, e incide inoltre sul sistema di smaltimento di materiali spesso difficili se non impossibili da degradare, sovraccaricato dall’enorme numero di rifiuti che questo sistema è in grado di generare. Si tratta infatti di rifiuti che talvolta provengono direttamente dalle aziende: gli abiti invenduti vengono bruciati perché più conveniente dal punto di vista economico piuttosto che sostenere importanti costi di magazzino e di marketing per rilanciare i prodotti.
Tuttavia il problema ambientale rappresenta “solo” la punta dell’iceberg di questo fenomeno complesso che trae la propria fortuna dallo sfruttamento delle cosiddette economie di scala, che consentono di ridurre enormemente i costi all’aumentare del volume produttivo, in questo caso a scapito soprattutto dei lavoratori che ricevono salari bassissimi e operano in condizioni precarie senza nessun tipo di tutela.
Ma che cosa significa il termine Fast Fashion e come nasce?
L’espressione fast fashion compare per la prima volta in un famoso articolo del New York Times del 1989, che descrive il modello di business di uno dei colossi emergenti del settore: il vantaggio competitivo risiedeva proprio nella capacità dell’azienda di passare dall’ideazione alla realizzazione e distribuzione di un capo in 15 giorni netti.
“Fast” si riferisce a diversi aspetti: è il ritmo di produzione, è il tempo per la decisione del consumatore, è il tempo di consegna ed è la vita del prodotto.
Questa realtà affonda le sue radici negli anni ’50, quando compaiono i primi abiti confezionati industrialmente destinati soprattutto ai giovani e alla classe media, con l’obiettivo di democratizzare la moda rendendo gli abiti di tendenza accessibili a tutti.
Dagli anni ’60 cresce l’interesse e iniziano le prime delocalizzazioni in paesi a basso costo della manodopera, fenomeno che continua ancora oggi in quegli Stati che non possiedono leggi stringenti in materia di tutela ambientale e del lavoro.
La fast fashion quindi lavora stimolando l’iperconsumo: il fatto stesso di realizzare capi destinati ad avere vita brevissima presuppone la continua creazione e proposta di alternative da sostituire.
L’arma principale di queste aziende è senza dubbio il marketing. Attraverso un continuo bombardamento pubblicitario soprattutto grazie ai social media, questi colossi alimentano gli acquisti compulsivi, facendo leva sulle emozioni del consumatore, proponendo un acquisto rapido, senza pensieri: “In fondo quel maglione costa poco e anche se non lo si utilizzerà mai non c’è il rischio di avere ripensamenti, basta uno swipe up!”
Inoltre il target preferito di queste aziende sono soprattutto i più giovani, che con i social hanno costantemente a che fare, sono sempre più attenti alla moda e cercano di emulare i propri influencer preferiti che sfoggiano outifit diversi tutti i giorni e dedicano intere stanze delle proprie case ai vastissimi guardaroba, col risultato che sempre più adolescenti, secondo il rapporto “The state of fashion 2019” redatto da McKinsey &Co, si dichiarano restii ad indossare più volte lo stesso outfit.
Come si esce da questo sistema? Quale ruolo giochiamo noi?
Contro questo sistema si levano da anni diverse voci, tanto che ultimamente si parla sempre più spesso di Slow Fashion. Si tratta di un movimento fondato nel 2007 da Kate Fletcher e che ha come pilastri i concetti di qualità delle materie prime, estetica del prodotto, valore dell’azienda o del produttore, filiera corta e trasparente, pratiche virtuose. È bene ricordare però che non sempre qualità e produzione etica coincidono con un basso impatto ambientale: non basta infatti utilizzare fibre naturali, ma è necessario che siano prodotte correttamente con un occhio di riguardo alla sostenibilità ed è per questo che è importante che siano certificate.
Tuttavia il passaggio più importante e più difficile è cercare di uscire dalla logica dell’iperconsumo: abbiamo davvero bisogno di comprare per essere felici? Ci servono davvero 100 capi di abbigliamento a stagione per essere alla moda? La risposta del movimento Slow Fashion è no: il punto non sta nel comprare di più, ma nel comprare meglio, da realtà artigianali o da piccoli produttori locali che offrono qualità, trasparenza e attenzione all’ambiente.
Quando si parla di moda sostenibile l’obiezione che viene mossa più frequentemente è che ha un costo inaccessibile ai più e rende vano il processo di democratizzazione della moda, accentuando ulteriormente le disuguaglianze economiche. Il discorso è sicuramente molto complesso, tuttavia Slow Fashion non riguarda solo l’acquisto di capi di abbigliamento realizzati con tessuti sperimentali, o artigianali. Riguarda anzi moltissimo pratiche più accessibili, le “pratiche virtuose” sopra citate appunto, come il riciclo creativo, le riparazioni, lo scambio di vestiti tra amici e parenti o gli swap-party, occasioni in cui ci si incontra per un aperitivo e con l’occasione si scambiano capi di abbigliamento.
Negli ultimi anni sta prendendo molto piede anche la scelta di acquistare di seconda mano o vintage che spesso consente di accedere a vestiti nuovi ma fuori produzione oppure a firme importanti a prezzi moderati. Sono sempre più diffusi infatti negozi e bancarelle cittadine in cui si possono trovare moltissimi capi a buon prezzo e di ottima qualità.
Un’altra ottima soluzione che si sta diffondendo è quella del “capsule wardrobe”, che consiste nel selezionare un massimo di 40 tra capi di abbigliamento e scarpe che siano versatili, facilmente abbinabili, alcuni dei quali utilizzabili tutto l’anno, che facciano sentire a proprio agio e nel combinarli per comporre diversi outfit dando sfogo alla propria fantasia. In questo modo avremo sempre abbinamenti perfetti da indossare in ogni occasione senza fermarci a fissare l’armadio pieno per ore perché “non abbiamo nulla da mettere” e riducendo la quantità scopriremo come un singolo capo può avere diversi utilizzi grazie alla nostra creatività.
Se ci pensiamo bene, il vantaggio enorme di queste soluzioni sta proprio nella possibilità di creare uno stile personale e unico, irripetibile, che rispecchi la nostra personalissima identità e che racconti una storia su di noi. Inoltre lo sappiamo bene: le mode ritornano. A quanti è capitato di ritrovarsi ad indossare un indumento che apparteneva alla propria mamma o papà anni fa e che ora viene scambiato per un capo all’ultima moda?
Perché allora non riutilizzare vestiti che già esistono invece di realizzare da zero capi che simulino una moda passata tornata in auge?
In fondo, il modo migliore per ridurre l’impatto dell’industria dell’abbigliamento è sicuramente dare nuova vita a quello che già c’è, riducendo la produzione.
Siamo tutti chiamati a questa rivoluzione, spesso non ce ne ricordiamo, ma abbiamo un enorme potere sul mercato che possiamo esercitare tramite le nostre scelte: essere cittadini consapevoli passa anche attraverso acquisti e consumi consapevoli.
Articolo di Martina Griseri – Team Comunicazione di GreenTo Legambiente
GreenTO, circolo ufficiale di Legambiente, è un’associazione che opera sulla città di Torino con l’obiettivo di dare vita ad una comunità sostenibile.
Cerchiamo di coinvolgere sempre più persone all’interno della realtà cittadina, proponendo idee per avvicinarsi alla sostenibilità tramite eventi e social.
I nostri attuali progetti sono: TrattoxTratto, Plastic Free Movida e greenTOChange.