Storia di un impiegato è forse uno degli album meno conosciuti di Fabrizio De André. Faber ha riversato tutto se stesso in questo disco. Storia di un impiegato vede infatti una componente autobiografica, una esistenziale, una umana e una politica. Quest’ultima è la causa del rinnegamento operato da parte di De André verso l’album. Abbiamo provato a raccontarvi tutto quello che si può dire su Storia di un impiegato, canzone per canzone.
Introduzione – Storia di un impiegato
C’era silenzio nel suo ufficio.
Non importa che tipo di ufficio fosse, quale lavoro facesse. Sono tutti uguali, e in tutti c’è silenzio.
Era un silenzio strano, quasi imposto, ma imposto silenziosamente. Un silenzio che veniva da in alto, molto in alto, ma al tempo stesso pervadeva tutto, era onnipresente.
Era un silenzio accettato, senza fatica, forse per abitudine, forse per necessità. Lo si accettava per arrivare alla fine del mese, con quello stipendio che avrebbe potuto consentire di vivere la vita di sempre. Quello stipendio che lascia tutto in statu quo ante, che non porta novità.
Il piacere dell’abitudine. Il piacere di vivere come si è sempre vissuto e sempre si vivrà. Il nuovo fa paura, è incerto, è sconosciuto. Meglio il vecchio, con i suoi difetti, compresi, e i suoi pregi, pochi, ma noti. Col cambiamento c’è “il rischio di perdere quel poco che c’hai e fare in modo che un giorno dirai: <<Cazzo, potevo…!>>”.
Saltando tutti insieme il pavimento viene giù, ma chi ha voglia di saltare davvero?
Lottavano così come si gioca
I cuccioli del maggio, era normale,
Loro avevano il tempo anche per la galera,
Ad aspettarli fuori rimaneva
La stessa rabbia, la stessa primavera
Sei versi, ventinove parole, un inizio deciso.
S’apre così “Storia di un impiegato”, sesto album di Fabrizio De André. L’album da lui rinnegato, al punto da volerlo bruciare il giorno della sua pubblicazione. Un album politico, troppo schierato per lui che aveva sempre voluto essere un cantastorie, e non un aizzatore di folle.
S’era sentito in dovere di cantare il Sessantotto, soprattutto viste le critiche ricevute per aver composto “La buona novella” negli anni cruciali delle rivolte. L’anticlericalismo, e in generale la voglia di ribellione, non aveva potuto tollerare che quel cantante degli ultimi avesse elogiato Gesù, sebbene lo ritenesse “il più grande rivoluzionario di tutti i tempi”. Questo, nonostante avesse narrato del suonatore Jones, il grande anarchico che “offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero non al denaro non all’amore nè al cielo”. Non sono errori: l’accento è sbagliato e manca una virgola. Faber volle intitolare così quel disco, uscito nel 1970, ispirato alle poesie dell’ “Antologia di Spoon River” di E.L. Masters.
La storia dell’impiegato inizia così, con quei versi che fin da subito mettono in chiaro le sue idee. Inizia con l’impiegato, che nel suo silenzio quotidiano, nel suo piegare la testa, sente le molotov preparate secondo le istruzioni del giornale “La Sinistra”, vede le barricate, e, in cuor suo, invidia l’energia di quei giovani, pronti a sfidare il potere in tutte le sue forme, quel potere che – loro ancora non lo sanno – vivrà ancora, grazie a loro.
“Vergognatevi, grandi oratori, che per liberare dagli affanni il cuore di chi vi ascolta passate notti intere a scrivere discorsi terribilmente noiosi, e spesso inutili. Guardate me, ci sono riuscita con un solo sguardo!” – la Follia.
La canzone del maggio
Voi non potete fermare il vento
Gli fate solo perdere tempo.
La versione originale di “Storia di un impiegato” iniziava e finiva così. I primi due versi della “Canzone del maggio” sono infatti anche gli ultimi due di “Nella mia ora di libertà”, al termine del percorso interiore dell’impiegato.
L’impiegato inizia la sua storia come coloro che “vitam silentio transeunt veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit”. È uno schiavo. Della sua pancia, dei padroni, della società, della moglie, dei figli, dei soldi, del consumo. È l’uomo medio, piegato dalla vita, che mira solo ad arrivare al giorno dopo.
È un uomo che vive la sua schiavitù. Non s’accorge che il comando, nei confronti dei suoi servi, “non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi”.
“Il padrone che vi domina ha soltanto due occhi, due mani, un corpo, niente di diverso da quanto possiede l’ultimo abitante del grande e sconfinato numero delle vostre città, eccetto i mezzi per distruggervi che voi stessi gli fornite”.
Sono frasi, idee, a lui sconosciute.
Eppure l’impiegato ha un fuoco diverso nel petto, “una coscienza al fosforo piantata tra l’aorta e l’intenzione”, che s’accende e s’infiamma di fronte alle ribellioni del maggio francese. Scopre che si può alzare la testa, e da qui inizia la sua evoluzione.
Ammira le gesta dell’anarchico franco-tedesco Daniel Marc Cohn-Bendit, che occupò la Sorbona e fomentò la rivolta di folle di studenti. A loro s’unirono i lavoratori, e da proteste studentesche si passò a protestare contro lo Stato, contro il potere. Si dimise il ministro dell’istruzione, e De Gaulle andò in televisione tentando, invano, di placare la furia.
La sconfitta non arrivò sul campo. Arrivò per colpa di chi in campo non scese mai, né da una parte né dall’altra. “Chacun de vous est concerné”, accusa Dominique Grange, autrice dell’originale canzone francese da cui De André prese ispirazione.
Roberto Danè, co-autore di Storia di un impiegato, in un’intervista raccontò la storia di questo brano, trovato quasi per caso tra il numeroso materiale di propaganda politica che gli autori leggevano per cercare ispirazione al disco:
“C’era una ragazza che cantava questa canzone. Un inno del maggio parigino, anzi l’inno più famoso di quei giorni. Ce ne innamorammo subito e pensammo a una traduzione. Telefonai a Parigi, contattai amici discografici per avere la sub-edizione di quel brano e poterlo così tradurre in Italia. Beh, era strano, non si riusciva a stabilire un contatto preciso”.
Grazie ad alcune conoscenze negli ambienti dell’estrema sinistra Danè riuscì a trovare un contatto:
“Wolinski, che mi consegna con fare sospetto a una persona di sua fiducia. […] Questa persona mi fa salire su un’auto malmessa […] che a fatica riesce a muoversi […] Bene, alla fine di un lungo giro che non finisce più, mi portano al quarto piano di una casa di periferia; e in quella stanza lontano da tutto e da tutti, vuota, incontro una ragazza, la ragazza della canzone, quella che cercavo. Era ricercata. Io non lo sapevo, l’ho scoperto lì; e ho scoperto anche che lei non voleva avere diritti su quella canzone. Mi disse ‘Ve la regalo, è una canzone di tutti’”.
Quel “chacun de vous est concerné” sarà poi tradotto come “per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti”. Non scendendo in campo, avete preso una posizione. Non schierandovi, vi siete schierati. Anche se nelle vostre strade non vi sono stati scontri, barricate, proteste, non siete estranei alla rivolta.
Avete ucciso la protesta, ma non pensate di essere salvi.
Verremo ancora alle vostre porte,
e grideremo ancora più forte:
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.
La bomba in testa – La svolta in Storia di un impiegato
Centodue tonnellate di carbone in cinque ore e quarantacinque minuti.
L’impresa di Aleksej Stachanov, nel 1935, divenne fonte di gloria per lui e per la nazione. Un simbolo contro la proverbiale indolenza del lavoratore russo, inspiegabilmente privo del desiderio di morire in miniera per un partito da lui non scelto. Lo stesso partito che gli dovette cambiare il nome che gli fu dato alla nascita, Aleksandr, per via di un errore del corrispondente locale della Pravda: la Verità di Stalin non ammetteva correzioni, e si preferì la post-verità.
L’eroe Stachanov, ricoperto di onorificenze, morì depresso e alcolizzato.
Ora che è morto, la patria si gloria
D’un altro eroe alla memoria.
Ma lei, che lo amava, aspettava il ritorno
D’un soldato vivo, d’un eroe morto che ne farà?
Se accanto nel letto le è rimasta la gloria
D’una medaglia alla memoria.
Parole di Faber, nella “Ballata dell’eroe”, registrata in Volume III (1968).
Il lavoratore diviene facilmente strumento di un ideale. Si cerca sempre di trovare dei simboli, qualcuno da indicare agli altri affinché venga imitato. L’idolo, in qualsiasi sistema, è essenziale. Senza un idolo siamo vuoti. Storia di un impiegato, non dimentichiamolo, è un album esistenziale, oltre che politico.
L’impiegato, costretto a un lavoro che odia, che non lo realizza, non trova soddisfazione negli idoli posti dalla società occidentale del dopoguerra. Ammira invece i ragazzi ribelli, “i cuccioli del maggio”, spinti dall’insofferenza per il loro vivere, con ideali sbagliati, relazioni sbagliate, persone sbagliate.
“La bomba in testa” è il fulcro della sua trasformazione, interna ed esterna, iniziata con l’“Introduzione” e la “Canzone del maggio”. È una protesta violenta e solitaria, che non ha niente a che vedere con le lotte sociali del Sessantotto.
… e io contavo i denti ai francobolli,
Dicevo “Grazie a Dio, buon Natale”.
Mi sentivo normale,
Eppure i miei trent’anni
Erano pochi più dei loro,
Ma non importa adesso torno al lavoro.
Cantavano il disordine dei sogni
Gli ingrati del benessere francese,
E non davan l’idea
Di denunciare uomini al balcone
Di un solo maggio, di un unico Paese.
La rivolta non è perfetta. I ribelli sono loro stessi borghesi, e vengono e torneranno dalla borghesia che tanto criticano. Tuttavia l’impiegato li ammira. Si sente vicino a loro, nonostante qualche anno di più. Sente che anche a loro manca qualcosa, e che quel qualcosa non è materiale, ma è un’idea, quell’idea di cui il consumismo cerca di privarli. Tuttavia le catene dell’abitudine sono troppo forti: “non importa, adesso torno al lavoro”.
Ormai sono in ritardo per gli amici,
Per l’olio potrei farcela da solo,
Illuminando al tritolo
Chi ha la faccia e mostra solo il viso
Sempre gradevole, sempre più impreciso.
E l’esplosivo spacca, taglia, fruga
Tra gli ospiti di un ballo mascherato,
Io mi sono invitato
A rilevar l’impronta
Dietro ogni maschera che salta
E a non aver pietà per la mia prima volta.
L’impiegato è arrivato tardi per lottare con i compagni. Tardi perché è più vecchio, tardi perché la rivolta sta finendo. Nonostante ciò, decide di non rinunciare alla propria lotta, e s’invita al ballo mascherato, di cui si canta alla quarta traccia dell’album. Vuol far saltare le maschere della società, i falsi idoli.
Il cambiamento, ormai, è avvenuto, ed è irreversibile.
“Non bisogna toccare gli idoli: la polvere che li ricopre potrebbe restarci attaccata alle dita” – G.Flaubert
Al ballo mascherato
Un ballo immaginario, dove sono riunite le figure che rappresentano il potere. De André ne cita solo alcune, senza neanche attaccarli tutti. Compatisce, per esempio, Gesù e Maria, vittime di una realtà tanto feroce da smorzare la loro santità. Compatisce Nelson, vittima del bisogno di eroi, di idoli, che ogni nazione ha. E, in fondo, compatisce anche Dante, vittima del suo bigottismo, quel bigottismo attaccato in tante altre canzoni, con “Un blasfemo”, o “La città vecchia”.
Cristo drogato da troppe sconfitte
Cede alla complicità
Di Nobel che gli espone la praticità
Di un’eventuale premio della bontà.
Sono le parole d’apertura della canzone, e sono un manifesto delle intenzioni del futuro bombarolo, dell’ex impiegato. Il premio della bontà è ambiguo: chiaro è il riferimento al celebre riconoscimento, ma, più probabilmente, la praticità sta nell’esplosione della bomba.
La bomba, che “non ha una natura gentile”, è pratica poiché imparziale. La bomba non decide chi colpire. Non distingue fra ricchi e poveri, buoni e cattivi, uomini e donne. Una bomba colpisce e basta. Diviene così lo strumento perfetto per chi vuol essere Ponzio Pilato, per chi non vuole assumersi la responsabilità di scegliere una vittima anziché un’altra. Così imparziale da tentare anche quel Cristo che, nonostante i suoi princìpi, non s’è, nei millenni, mai lasciato fermare quando si trattava di colpire popoli interi, purché con uno scopo.
Lo scopo del bombarolo è apprezzabile: eliminare il potere, il potere malato, dal mondo. Gesù si lascia tentare.
E adesso puoi togliermi i piedi dal collo
Amico che m’hai insegnato il “come si fa”
Se no ti porto indietro di qualche minuto
Ti metto a conversare, ti ci metto seduto
Tra Nelson e la statua della Pietà,
Al ballo mascherato della celebrità.
La strofa finale è molto interessante. È un attacco ai padri delle rivolte, delle rivoluzioni, a chi, da oppositore del potere, diviene esso stesso potere. Da Robespierre a Lenin, da Mosè a Castro. La storia è piena d’esempi.
La minaccia finale è contro di loro. Dopo averci guidati, ora che siamo maturi, dovete andarvene. Altrimenti finirete anche voi al ballo mascherato, in mezzo all’esplosione.
Sogno numero due
Un parlato costante, solenne, caratterizza il “Sogno numero due”. De André recita la parte del giudice incaricato di condannare o assolvere l’impiegato, colpevole di aver commesso una strage fra i “soci vitalizi del Potere”.
Dietro la finzione del processo si nasconde un discorso sul Potere e sulla sua inevitabile tendenza a confermarsi, dietro forma ogni volta nuove e diverse.
Lo stesso impiegato, convinto della sua avversione per il Potere, diviene Potere.
Se tu la credevi vendetta,
Il fosforo di guardia
Segnalava la tua urgenza di Potere,
Mentre ti emozionavi nel ruolo più eccitante della legge,
Quello che non protegge:
La parte del boia.
La legge, essendo manifestazione di ordine e civiltà, trova nella figura del boia la sua massima contraddizione. Il suo compito è risanare un tessuto sociale violato da un delitto, ma commettendo a sua volta i delitti per cui punisce.
Imputato ascolta,
Noi ti abbiamo ascoltato.
Tu non sapevi di avere una coscienza al fosforo
Piantata tra l’aorta e l’intenzione:
Noi ti abbiamo osservato,
Dal primo battere del cuore
Fino ai ritmi più brevi
Dell’ultima emozione,
Quando uccidevi,
Favorendo il Potere,
I soci vitalizi del Potere,
Ammucchiati in discesa
A difesa della loro celebrazione.
Nulla sfugge al Potere, che osserva come l’impiegato assurga a suo alleato, inconsapevolmente. Il Potere sa quali sono le intenzioni dell’attentatore, lo conosce, e lascia che egli agisca.
Il fine è il Potere stesso, come diceva Orwell. Il Potere mira solo ad avere ancora più potere, cambiando forma, se necessario, anche radicalmente.
“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”.
Per questo il Potere lascia che l’imputato giudichi, sebbene il dito più lungo della sua mano sia il medio, e non l’indice, come quello del giudice.
Hai assolto e hai condannato
Al di sopra di me,
Ma al di sopra di me,
Per quello che hai fatto,
Per come lo hai rinnovato
Il Potere ti è grato.
Suo malgrado, l’impiegato è diventato socio del Potere, arrogandosi il diritto di condannare e assolvere, tramite l’imparzialità della bomba. Tramite il delitto ha compiuto quell’ascesa sociale di cui poi si tratterà nella “Canzone del padre”.
Tu sei il Potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi essere assolto o condannato?
La canzone del padre
“La canzone del padre” è uno dei brani più criptici, se non il più criptico, di Storia di un impiegato. Anzi, dell’intera discografia di De André. L’oscurità che caratterizza l’album, e che l’autore ritiene un eccessivo ostacolo alla comprensione del suo messaggio, trova qui il suo punto più alto. Si susseguono, nella dimensione onirica della canzone, allusioni poco chiare, cambi ingiustificati di pronomi e soggetti, modi di dire, che rendono il tutto difficile da interpretare definitivamente.
Il conflitto, elemento importante nel disco, diviene ora l’elemento centrale, e si manifesta in forma triplice: generazionale, autoritario e sociale. Oltre a questi, v’è anche il conflitto interno dell’impiegato, che riflette sulla sua vita e ne è inevitabilmente deluso.
Lo scontro padre-figlio si manifesta subito, con i seguenti versi:
“Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi
solo i sogni che non fanno svegliare?”
“Sì. Vostro Onore, ma li voglio più grandi”
“C’è lì un posto, lo ha lasciato tuo padre.
Non dovrai che restare sul ponte
E guardare le altre navi passare:
Le più piccole dirigile al fiume
E più grandi sanno già dove andare”.
Così son diventato mio padre,
Ucciso in un sogno precedente,
Il tribunale mi ha dato fiducia:
Assoluzione e delitto lo stesso movente.
Il figlio, l’impiegato, ha rifiutato la vita del padre, ritenendola priva di senso, eccessivamente sottomessa, e s’è ribellato al potere. Il potere, tuttavia, lo ha fagocitato, e ora, in un processo fittizio, il giudice gli chiede se vuol riprendere il posto lasciato dal padre, che sognava senza svegliarsi – “Una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute”, scrisse Nietzsche.
L’imputato accetta, con la sola condizione di avere sogni più grandi, di poter superare suo padre. il potere allora gli dà un ruolo, abbastanza elevato da dirigere le navi più piccole, ma mai abbastanza da indirizzare le più grandi, che sanno già dove andare.
L’impiegato s’accorge di essere diventato il padre che voleva uccidere, e, come il più classico dei Wilhelm Meister, prende il suo posto, dopo una vana ribellione giovanile.
E ora Berto, figlio della Lavandaia,
Compagno di scuola, preferisce imparare
A contare sulle antenne dei grilli
Non usa mai bolle di sapone per giocare;
Seppelliva sua madre in un cimitero di lavatrici
Avvolta in un lenzuolo quasi come gli eroi;
Si fermò un attimo per suggerire a Dio
Di continuare a farsi i fatti suoi
E scappò via con la paura di arrugginire
Il giornale di ieri lo dà morto arrugginito,
I becchini ne raccolgono spesso
Fra la gente che si lascia piovere addosso.
Compare ora il secondo conflitto, il conflitto di classe, dovuto a ragioni economiche e sociali. L’impiegato, nato in una realtà borghese, pur disprezzandone alcuni valori, vede le sventure di chi non ha avuto le sue fortune. Azzardando, si può immaginare che in questa strofa Faber ritrovasse se stesso, cantore degli ultimi ma nato nell’alta borghesia, e per questo duramente attaccato, per motivazioni diffuse ma a mio parere incomprensibili. Che Storia di un impiegato sia in realtà un disco autobiografico?
Vede Berto, figlio della lavandaia e suo compagno di scuola, costretto a lavorare nei campi, imparando, o forse no, “a contare sulle antenne dei grilli”, e senza potersi permettere giochi borghesi come il sapone. Sua unica speranza la fuga, ma muore arrugginito, vivendo da accattone.
Ho investito il denaro e gli affetti,
Banca e famiglia danno rendite sicure.
Con mia moglie si discute l’amore:
Ci sono distanze, non ci sono paure.
Ma ogni notte lei mi si arrende più tardi,
Vengono uomini, ce n’è uno più magro:
Ha una valigia e due passaporti,
Lei ha gli occhi di una donna che pago.
Commissario io ti pago per questo,
Lei ha gli occhi di una donna che è mia.
L’uomo magro ha le mani occupate,
Una valigia di ciondoli, un foglio di via.
Compare qui il conflitto interno, con l’impiegato che, deluso da una moglie e da una famiglia sicure, ma senza passione, si rifugia nell’amore a pagamento, facendo ogni notte sempre più tardi. Indizio che fa pensare che quel “lei” sia riferito a una prostituta è anche l’uomo magro, probabilmente il protettore: ha una valigia di ciondoli – preservativi – e un foglio di via. Di qui l’invettiva finale: il commissario lotta contro la prostituzione, che l’impiegato vede però come un suo diritto.
Non ha più la faccia del suo primo hashish,
È il mio ultimo figlio, il meno voluto.
Ha pochi stracci dove inciampare
Non gli importa d’alzarsi, neppure quando è caduto:
E i miei alibi prendono fuoco,
Il Guttuso ancora da autenticare.
Adesso le fiamme mi avvolgono il letto.
Questi i sogni che non fanno svegliare.
Vostro Onore, sei un figlio di troia,
Mi sveglio ancora e mi sveglio sudato.
Il figlio, non voluto, dell’impiegato, è tossicodipendente. È il manifesto finale di una vita con grandi ideali e ancor più grandi delusioni. Quest’ansia per una vita inconcludente lo fa svegliare la notte. Il giudice gli ha mentito: ha la stessa vita di suo padre.
Non è ciò che l’impiegato vuole. Ecco il perché della minaccia finale.
Ora aspettami fuori dal sogno:
Ci vedremo davvero,
Io ricomincio da capo.
Il bombarolo – L’azione in Storia di un impiegato
Trinitrotoluene, TNT, o più semplicemente tritolo. Elemento essenziale di un esplosivo, il migliore amico del bombarolo.
L’impiegato s’è svegliato. È uscito dalla dimensione onirica e s’è deciso, tra attentati pensati e finti processi, a dare la svolta alla sua vita. Vuole attaccare il centro di potere. Non può più farlo in compagnia, quindi decide di agire da solo. Questo è il punto più dinamico di Storia di un impiegato.
La canzone viaggia sul sottile filo che distingue follia e genio, pazzia e diversità. L’impiegato, “un trentenne disperato”, si staglia sulla gente comune, senza aspettare “la pioggia per non piangere da solo”. Ogni strofa si conclude infatti con una frase che sottolinea questo suo differenziarsi dalle altre persone: “io son d’un’altra razza”, “io son d’un altro avviso”, “ho scelto un’altra scuola”. E poi, con folle orgoglio, “son bombarolo!”.
Eppure, nonostante voglia combattere l’autorità, è estasiato dal potere che gli dà il poter decidere “sulla condanna a morte o l’amnistia”. La sua è una forma di autodifesa, malata, senza dubbio, ma che lui ritiene necessaria. È la stessa difesa del cannone nel cortile della canzone “La domenica delle salme”.
Il suo attentato, infatti, invece di colpire il Parlamento, espressione di quel potere così distante, finisce col far esplodere un’edicola, “un chiosco di giornali”. La sua reazione è drammatica. È la sua sconfitta finale: ha fallito nella vita e ha fallito anche nella ribellione a quella vita che l’aveva deluso. Non ha via d’uscita. Lo aspetta il carcere, e sa di aver sprecato la sua occasione, la sua esistenza.
Lo aspetta un’ultima umiliazione: anche il suo amore, quell’amore su cui aveva vacillato, ma di cui, nella difficoltà, diventa certo, lo abbandona. La moglie, delusa, non lo capisce, lo trova un uomo diverso, troppo cambiato, e lo lascia solo, nel suo ridicolo.
Da questa sconfitta inizia però la rinascita dell’impiegato, che si articolerà tra la condanna, stavolta vera, raccontata in “Verranno a chiederti del nostro amore” e il carcere, in “Nella mia ora di libertà”, ultime due canzoni di Storia di un impiegato.
Verranno a chiederti del nostro amore
La prima conseguenza di un amore che finisce è la ricerca di un rifugio, di sostegno, fra gli amici. Improvvisamente ci si ritrova circondati da persone che non bramano altro che carpire un segreto, un dettaglio, che nessun altro conosce, per poter poi riferire.
Come avvoltoi si lanciano tutti sulla carcassa di un amore che non esiste più, tutti vogliono un pezzo di ciò che è stato, per poterlo denigrare, per potersi sostituire al vecchio amore e superarlo, se mai è possibile.
E ciascuno dei due, dei due vecchi amanti, rimane a chiedersi cosa l’altro stia raccontando di lei, e viceversa.
Storia di un impiegato rivela qui il suo lato sentimentale, il suo lato umano.
“Verranno a chiederti del nostro amore” è la preghiera di un morituro. È un uomo che sa di avere davanti a sé, fino alla fine dei suoi giorni, solo delle sbarre, privo della forza, o della disperazione del Miché – “stanotte Miché s’è impiccato a un chiodo perché non voleva restare vent’anni in prigione, lontano da te”. Il Miché era però in prigione per il troppo amore, che l’aveva portato a uccidere “chi voleva rubargli Mari’”, mentre l’impiegato si ritrova in arresto a causa della sua folle, e incredibilmente romantica, ricerca della libertà. È la Storia di un impiegato che volge al termine
Così, rassegnato, non cerca la morte, ma rivolge solo una lunga, commovente, preghiera alla sua amata, che non potrà più amare. È la preghiera di un uomo che sa di essere impotente, che sa di dover, e di essere costretto a, scomparire dalla vita della sua compagna.
La prega di non svendere il loro amore “a quella gente così consumata nel farsi dar retta”, o perlomeno di “non darglielo in fretta”, la implora di “non spalancare le labbra ad un ingorgo di parole, le sue labbra così frenate dalle fantasie dell’amore, dopo l’amore così sicure a rifugiarsi nei sempre, nell’ipocrisia dei mai”. Già, i sempre, i mai. Quelle parole che pensiamo davvero, che ci promettiamo, ma che, in fondo, sappiamo di non poter rispettare.
“Non son riuscito a cambiarti, non mi hai cambiato, lo sai”. Il ritornello, se di ritornello si può parlare, recita queste parole. Due caratteri troppo forti, incapaci di modificare l’altro, e, proprio per questo, destinati a diventare degni di un racconto. Due persone che hanno vissuto tranquille, adagiate in un’apatia che non consentiva loro di scuotersi – “chissà cosa si prova a liberare la fiducia nelle proprie tentazioni” – fino al mutamento interiore dell’impiegato, divenuto bombarolo, e per questo emarginato da “chi aspetta la pioggia per non piangere da solo”.
E lei, privata del suo amore, che ormai non riconosce, o che – in un ideale forse troppo romantico – riconosce proprio ora che s’è scosso, ma di fronte al pubblico non può approvare, viene invitata ad apparire bellissima, così da sconvolgere tutti: “Loro si stupiranno che tu non mi bastavi”. Il loro amore, secondo l’impiegato, “non era adulto”, e, nel mezzo dell’ignavia che li caratterizzava, le uniche eccezioni erano i “graffi sui seni” che lui le lasciava in preda alla passione. Fino a quando, dopo il maggio francese, lui si ritrova a “scagliare il potere dalle mani”.
Gli occhi di lei – “i tuoi larghi occhi, che non piangono mai” – diventano vivi solo in estate, per poi morire con l’autunno, vittime della morta vita borghese. Un tempo vivi – “non ha più la faccia del suo primo hashish”- ora buoni “per buttarsi in un cinema con una pietra al collo”. Ma, infine, “troppo stanchi per non vergognarsi di confessarlo nei miei, proprio identici ai tuoi”; gli occhi della compagna di viaggio sono, in fondo, il più bel paesaggio, e “magari sei l’unico a capirla, e la fai scendere senza seguirla, senza averle sfiorato la mano”.
“Ma senza che gli altri ne sappiano niente, dimmi senza un programma, dimmi come ci si sente? Continuerai ad ammirarti tanto da volerti portare al dito? Farai l’amore per amore o per avercelo garantito?”. Ecco un’altra preghiera, seguita dopo poco dall’ultima – celeberrima – frase: “Continuerai a farti scegliere, o finalmente sceglierai?”.
La prega di scuotersi, di uscire dalla sua rigidità, dalla sua borghesia, di non temere gli eccessi e i pensieri degli altri, di non restare “dove un attimo vale un altro, senza chiederti come mai”, di prendersi ciò che vuole, senza diventare dipendente da “un Casanova che ti promette di presentarti ai genitori” o da “Alice che si fa il whiskey distillando i fiori”, cercando nelle follie altrui una consolazione per la propria incapacità di osare.
La prega, in sostanza, di iniziare la sua rivoluzione. Ed è il più grande atto d’amore che possa compiere.
Nella mia ora di libertà
Ci sono due maniere differenti di vedere il carcere, e la vita che comporta. Una prevede un individualismo spiccato, una lotta per la sopravvivenza. L’altra è un’idea comunitaria, contro quel nemico rappresentato dal secondino.
Il secondino. La figura più bassa del Potere. Privo di potere decisionale, serve solo a mantenere rinchiusi coloro che hanno osato sfidare il Potere. Questa è l’idea di carcere che troviamo in Storia di un impiegato. Nella mio ora di libertà racconta le ore in carcere trascorse dall’impiegato – ormai bombarolo – dopo la condanna.
È un noi contro di loro, noi carcerati contro i secondini, contro i giudici, contro i giudizi di chi sta fuori e non capisce.
una polemica di dignità
tante le grinte, le ghigne, i musi,
vagli a spiegare che è primavera
e poi lo sanno ma preferiscono
vederla togliere a chi va in galera
e poi lo scanno ma preferiscono
vederla togliere a chi va in galera.
poche le facce, tra loro lei,
si sta chiedendo tutto in un giorno
si suggerisce, ci giurerei
quel che dirà di me alla gente
quel che dirà ve lo dico io
da un po’ di tempo era un po’ cambiato
ma non nel dirmi amore mio.
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