Autore: Alejo Carpentier
Opera: I passi perduti (titolo originale in spagnolo: “Los pasos perdidos”)
Anno: 1953
Traduzione: Maria Vasta Dazzi
Cubano d’adozione, nato nel 1904 a Losanna da madre russa e padre francese (un accento che gli rimase, come si evince dalle pur rare interviste disponibili), Alejo Carpentier fu un intellettuale a tutto tondo, una figura carismatica. Questo misto di racconto indiretto e fogli di diario, “I passi perduti”, ne richiama sia la formazione europea, sia la fine conoscenza della musica e dell’antropologia sudamericana con uno stile di scrittura preciso, intenso, immaginoso. Del resto, il suo talento per la forma diaristica è anche testimoniato dal magnifico “L’arpa e l’ombra” su Cristoforo Colombo.
In queste ricche e calibratissime pagine, abbiamo di fronte la cronaca di un viaggio (com’era accaduto in “Visioni d’America”, opera di qualche anno prima) compiuto da un musicologo fin nel cuore della foresta vergine dell’Orinoco (dopo una fase parigina, Carpentier visse 14 anni in Venezuela, e fu qui che scrisse il testo). Obiettivo del viaggio, la ricerca e lo studio dei più antichi strumenti musicali creati dagli indios. Ma è davvero solo un viaggio? La potremmo definire un’epopea rivelatrice: “tra l’Io attuale e l’Io che avevo aspirato a essere un giorno, affondava nelle tenebre l’abisso dei passi perduti”, rifletterà l’io narrante, poiché il ritorno alle origini e alle primigenie forme d’arte, a venerabili tradizioni e alle testimonianze sciamaniche attestatrici della “meravigliosa unità dei miti” finisce per comporre “un lungo cammino nei domini della verità” e nella “vertigine degli abissi”. Proveniente dalla corrotta civiltà urbana, dopo questo lavacro purificatore il protagonista si sentirà risanato nel corpo e nello spirito.
Viene in generale condotta nel romanzo una dura polemica contro quella modernità occidentalizzante in cui i soliti “labirinti intellettuali” portano a farsi “divorare dai medesimi Minotauri”. La civilisation non ha dopotutto partorito, con una colpevole leggerezza, i grandi orrori della storia? Qui viene a essere rappresentata da Mouche, compagna dell’io narrante e, al pari della moglie Ruth, fatua e artificiale. Nulla a che vedere con la “dimensione primordiale della bellezza” che pervade questa “terra senza date” avvolta in una “vertiginoso retrocedere del tempo”, una terra che esprime “il mondo anteriore all’uomo”. Così come ogni altro elemento nella foresta vergine fa parte di un ventaglio di “simboli millenari”, anche Rosario, il “mistero personificato” di cui il protagonista si innamora, abbandonando Mouche, è una sorta di Eva decisa a riconoscere, nella loro sanzione profonda, i ruoli di genere trasmessi dai millenni (in questo possiamo rilevare un certo compiacimento nostalgico di Carpentier, il quale, pure, avrebbe militato fra i castristi). Disincanto radicale verso il mondo moderno, individualismo estremo e alienazione malinconica sono i tre volti dell’approdo del protagonista, il quale non resisterà al rientro dalla foresta vergine e vi farà ritorno. Ma la conclusione sarà problematica.
L’aspro J’accuse contro i “vuoti idoli” del mondo moderno è centrale, ma questa prosa e la preparazione culturale che affiora di capoverso in capoverso lo fanno passare in secondo piano: sia rispetto all’impressionante capacità di descrizione dei sistemi naturali (in particolare le Ande, tratteggiate come sublimi, e la foresta, con i misteriosi corsi d’acqua), sia rispetto all’accattivante ricognizione fra idiomi, tradizioni, antichi rituali. Queste manifestazioni dell’extrastoria, che molti nel mondo sedicente civilizzato credono di comprendere, nella loro effettiva complessità suggeriscono quanto sia alla fin fine impenetrabile una storia così radicalmente “altra”. Il senso di straniamento che si determina alla lettura nasce proprio da tale impostazione. Nel prologo al “Regno di questo mondo”, riguardante la rivoluzione haitiana del 1791, Carpentier l’aveva ricondotta a un real maravilloso. Ebbe in seguito vari brillanti imitatori, come Garcia Marquez.
Daniele Rocca