Autore: Bryan Washington
Opera: Lot (titolo originale in inglese americano: Lot: Stories)
Anno: 2019
Traduzione: Emanuele Giammarco (2020)
In Italia si legge poco e male anche perché scrivono e pubblicano un po’ tutti. Nella narrativa prospera una minutaglia di epigoni-imitatori, più o meno consapevoli, del peggio della recente scuola americana e francese. Specialisti in comode frasette sbocconcellate, cercano di apparire taglienti e ironici, o desolati e corrosivi, ma ciò che si nota in questa produzione così superata, al netto delle storie narrate o delle fumose introspezioni, è una disarmante aridità lessicale e immaginativa.
Lo scenario è triste. Sostenuti da editori in crisi di liquidità e da critici in debito di preparazione, orde di lillipuziani destinati all’oblio colonizzano le vetrine, trovando acquirenti fra i molti lettori di scarsa cultura che si fanno ispirare dalle copertine, o da recensioni amiche strombazzate fra i banconi dei supermercati. Non a caso, sono questi i romanzi che ritroviamo nei mercatini dell’usato, letti e prontamente sbolognati: il trionfo dell’effimero.
Negli Stati Uniti, su questo p(i)attume si sono ormai imposti, e da tempo, molti autori di ben altro calibro. Bryan Washington, classe 1993, conterraneo di Chris Offutt (Kentucky), è uno della nuova leva, tanto che, sulla scia del successo di “Lot”, anche il suo esordio “Memorial” viene in questi giorni dato alle stampe.
“Lot” è ambientato nei quartieri degradati di Houston. Sono racconti che si diramano da un tronco principale, quello con al centro l’io narrante Nicolas, un afro-latino che solo dopo un’ingloriosa odissea underground scoprirà la verità sui propri tormenti sessuali, e le ragioni dell’attaccamento a una terra che non ama. Lungo questa via incontriamo profili, aneddoti, fugaci riflessioni da punti di vista e focalizzazioni molteplici. Ogni capitoletto è centrato su di una zona della metropoli, o, meglio, sui suoi protagonisti e comprimari, dal duro fratello Javi a Gloria, la “donna corasòl”, dall’ambiguo magnaccia Rod agli spacciatori (“farmacisti per le pari opportunità”): è un inframondo che vive della “solita vita immobile in movimento”, divorato dal desiderio, vero collante comunitario di questa giungla che ospita afroamericani, latinos, arabi, indiani e bianchi poveri.
Nella riproduzione di questa realtà babelica, però, non c’è caos, perché il taglio scelto ha un sapore giornalistico: prima viene isolato il nucleo narrativo fondamentale, quindi abbiamo il suo ante e il suo post. I dialoghi sferzanti, lo slang, il misto di rabbia, fatalismo e humour (in questo, l’autore è più vicino a un Irvine Welsh che a un Hubert Selby jr.) non anestetizzano, bensì potenziano al massimo il pessimismo e l’amarezza di fondo in pagine depurate da ogni retorica.
È come se avessimo di fronte un epos rovesciato, fra il tragico e il grottesco. Anche perché la speranza può rimanere per molto tempo nei cuori di chi lotta (“Mamma le diceva di aspettare. L’America ti faceva quell’effetto. Avrebbero capito come adattarsi, sarebbe riuscita a craccare la password, ci doveva credere e basta”), ma prima o poi quasi tutti finiranno “ingoiati vivi da questo paese”, senza una redenzione, un riscatto. “Certe persone”, osserva Nicolas, “vivono la loro intera esistenza senza che gli accada una sola cosa buona” in una città che agli abitanti dei quartieri poveri offre appena le prospettive minime di sopravvivenza (“sarà stata pure grande, ma le loro orbite erano infinitamente piccole”), come in un “merdosissimo acquario per pesci rossi”.