Autore: Carson McCullers
Opera: Il cuore è un cacciatore solitario (titolo originale americano: The Heart Is a Lonely Hunter)
Anno: 1940
Traduzione dall’inglese: Irene Brin (ristampa Einaudi 2008)
Lula Carson Smith nacque in Georgia nel 1917 e visse solo cinquant’anni, ma la sua è rimasta nel tempo una delle voci più importanti di quella straordinaria stagione della letteratura americana che vide attivi Hemingway, Faulkner, Steinbeck, O’Connor, Dos Passos, Miller, Scott Fitzgerald, Fante, Salinger, Wolfe, oltre a Truman Capote e Tennessee Williams, i quali furono suoi amici stretti.
In quel ricchissimo panorama, la McCullers fu una figura ancor più tormentata di molte altre, per l’infelicità matrimoniale (il marito, in realtà omosessuale, si uccise a Parigi), l’alcolismo, che la catturò nella seconda metà della sua vita, e un lesbismo che non riuscì mai a concretizzarsi: Carson ebbe molti amori platonici femminili, rimanendo in particolare folgorata da una scrittrice androgina, cui nel 1941 dedicò il secondo romanzo, Riflessi in un occhio d’oro: la carismatica zurighese Annemarie Schwarzenbach (morta l’anno successivo per una caduta in bicicletta).
Questo “Cuore”, che Einaudi ha qualche anno fa riproposto nella storica traduzione di Irene Brin, e con una stimolante introduzione di Goffredo Fofi, verte sui temi della marginalità e della solitudine, trattati in modo diretto, crudo ed essenziale. L’autrice rappresenta il confronto fra generi, etnie, generazioni attraverso numerosi personaggi, tutti caratterizzati da un comune senso di perdita e frustrazione. Accade anche nel caso della giovane Mick, che si innamora della musica da quando un giorno la Terza di Beethoven la travolge; pur sapendo controllare il proprio slancio (“doveva soltanto attendere, aspettare paziente come le foglie che sbocciano sulla quercia in primavera”), è destinata a delusioni cocenti. Allo stesso modo degli altri, finirà nella sconfinata galassia dei “losers”, quella di cui Hollywood parla solo quando intende glorificare il mito della chance o dimostrare gli effetti deleteri della devianza.
Qui l’aria che si respira è ben altra. Nella vasta galleria di ritratti che incontriamo, ne troneggiano quattro: il manesco, ma coltissimo nero, marxista (e vegetariano!) Benedict Copeland (“Copeland era uno di quelli che sapevano. E coloro che sapevano erano come un pugno di soldati nudi davanti a un battaglione armato”), che finirà nella morsa di istituzioni razziste e repressive; il suo corrispettivo bianco, l’alcolista rivoluzionario Jake, impulsivo e diperato; il sensibile Biff, proprietario del bar che fa un po’ da centro catalizzatore per le varie traiettorie di queste vite marginali; infine, baricentro di questo microcosmo, il “sempre solo, sempre immobile” Singer, un orologiaio sordomuto che vive presso i genitori di Mick e che soffre per la follia dell’amato Antonapoulos, anch’egli sordomuto. Nel proprio silenzio, ascoltando empatico, egli riesce a far decantare l’altrui sofferenza, ma non trova consolazione per sé. Oltre che una figura-specchio di confessione e conciliazione, quella di Singer è una figura cristica luminosa (“una specie di semidio”), di stupefacente nitore: uno dei meglio concepiti personaggi letterari del Novecento.
I pregi di quest’opera non si esauriscono nella forza delle sue molte storie e dei personaggi. Si regge infatti su di un’estrema agilità formale, soprattutto nella mimesi del parlato, per cui ad esempio a una Portia, la ragazza nera amica di Mick, che si esprime in qualcosa di simile a uno slang, corrisponde il limpido infantilismo di Mick stessa, mentre all’una e all’altra fanno da contraltare sia lo stile oratorio utilizzato da Copeland, sia quello singultante di Jake. Anche grazie a questo il romanzo si mantiene sempre su di un registro polifonico, brillando per la continua ma fluida rotazione dei punti di vista, una focalizzazione variabile condotta dalla McCullers, a soli 23 anni, con assoluta maestria.
Si ha la sensazione che, se fin dalla scuola dell’obbligo gli americani leggessero integralmente almeno alcuni dei loro grandi romanzi novecenteschi, non assisteremmo, proprio nella terra di Washington e Martin Luther King, al frequente scempio dei diritti o al trionfo della demagogia.