Autore: Clarice Lispector
Opera: Acqua viva (titolo originale in portoghese brasiliano: Agua viva)
Anno: 1973
Traduzione: Roberto Francavilla (2017)
«Questo non è un libro perché non è così che si scrive. Ciò che scrivo è un solo culmine? I miei giorni sono un solo culmine: io vivo sull’orlo», leggiamo nelle prime pagine di Agua viva, fra i Grandi Libri Sperimentali della seconda metà del Novecento. Ucraina di nascita, Chaya, poi Clarice Lispector, a tre anni approdò con la famiglia in Brasile fuggendo alle persecuzioni antisemite in patria. Sarebbe entrata fra i classici della letteratura brasiliana moderna, e non solo del modernismo in senso stretto. Unito a una weltanschauung altamente disturbante e irriducibile a qualsiasi formula, il suo stile limpido e cogente, di rara freschezza e immaginosità fin dal capolavoro d’esordio Vicino al cuore selvaggio (1944), l’avrebbe resa un unicum nella storia della letteratura sudamericana.
«La libertà che a volte sentiva», scrive di Joanna in quel finissimo primo romanzo, «non veniva da riflessioni nitide, ma da uno stato come fatto di percezioni troppo organiche per essere formulate in pensieri. Talora, in fondo alle sensazioni balenava un’idea che le dava una vaga coscienza della sua specie e del suo colore (…). Si approfondiva magicamente e si spandeva, senza un vero contenuto e una vera forma, ma anche senza dimensioni. L’impressione che, se fosse riuscita a trattenersi in quella sensazione ancora per qualche istante, avrebbe avuto una rivelazione – facilmente, come percepire il resto del mondo solo inclinandosi dalla terra verso lo spazio (…). Lei definiva l’eternità e le spiegazioni sorgevano fatali come i battiti del cuore». Parole scritte sui ventitré anni, ma nelle quali c’è già la radice dell’intera vertiginosa opera successiva, fino al postumo Un soffio di vita. Anche qui sarà ribadita una volta per tutte l’idea che la verità profonda dell’esistenza sia ineffabile: accade anche in Agua viva, dove leggiamo che «le verità non hanno parole», e nel racconto del 1964 La Passione secondo G.H. («vivere non è narrabile»). In quest’ultimo testo, una circostanza meschina come il ritrovamento di uno scarafaggio nella camera della propria domestica porta la protagonista a un lungo e spietato lavorio di scavo interiore.
In Agua viva abbiamo di fronte la summa di questa pluridecennale riflessione, trasfigurata su di un piano metaletterario. La forma si fa ancor più densa e concisa, tagliente, seppur visionaria, e ne sono assenti lo spazio e il tempo, coordinate consuete di ogni narrazione. «E follemente mi impadronisco delle derive di me, i miei deliri mi soffocano di tanta bellezza. Io sono prima, io sono quasi, io sono mai», scrive la Lispector. Il monologo è un flusso incalzante e spezzato in forma di lettera che lei stessa accosta al jazz, quindi all’inconcluso e all’inorganico. «Voglio l’esperienza di una mancanza di costruzione», proclama. Le basta «l’immersione nella materia della parola», fino a quando, preda di un panismo dionisiaco, come una sacerdotessa del Verbo decide di affrontare l’ineffabile raccogliendo la sfida delle sfide: produrre la cronaca del parto di se stessa. L’interlocutore cui si rivolge non è che la sponda necessaria affinché tutto ciò accada: «La mia voce cade nell’abisso del tuo silenzio. Tu mi leggi in silenzio. Ma in questo illimitato campo muto dispiego le ali, libera di vivere. Allora accetto il peggio ed entro nel midollo della morte e per questo sono viva».
La Lispector, che collaborò anche con il grande cantautore Chico Buarque (qui lui ne parla), morì per un tumore verso la fine del 1977, alcuni mesi dopo aver rilasciato l’unica intervista televisiva: vi dichiarava di aver cominciato a scrivere dopo aver letto Il lupo della steppa di Hesse, a 13 anni, e concludeva dicendo di sentirsi ormai morta. Non sapeva se potersi considerare sul punto di rinascere, come in passato, grazie alla scrittura.
Daniele Rocca