Autore: Gabriel Tallent
Opera: Mio assoluto amore (titolo originale: My Absolute Darling)
Anno: 2017
Traduzione: Alberto Cristoforo (2018)
Se un tempo Gabriel Tallent (1987, Santa Fe, New Mexico) lavorava come guida nei parchi d’America, oggi è uno dei pochi giovani autori di qualità campioni di vendite. Stephen King ha ossimoricamente definito questo romanzo d’esordio “ugly, beautiful, horrifying, and uplifting”.
La vicenda ruota attorno al rapporto fra un padre, Martin, e la figlia quattordicenne, “Turtle”. Per lei, Martin non è solo un inflessibile addestratore che la sottopone a brutali prove fisiche, ma anche un amico, un modello, una guida morale, un (indesiderato) amante. I due vivono isolati.
A realizzare quest’opera, Tallent non è stato indotto solo dall’interesse per la questione della presenza culturale, oggi, dei temi dell’ambiente e della donna – come ha detto nel corso di un’intervista concessa a Jeffrey Brown sulla PBS -, ma dal desiderio di tradurre un soggetto in sé non nuovo in chiave artistica. Lo si vede dalla ricchezza lessicale, dalla scelta delle immagini e dall’attenta organizzazione delle sequenze, che solo in qualche circostanza richiederebbero maggior sintesi. Dati tutti questi pregi, il romanzo colpisce come un pugno nello stomaco.
Anche perché a far marciare il testo è un respiro concettuale che si sprigiona dall’attrito fra le visioni del mondo del padre di Turtle e del nonno (veterano di Corea), il quale è ostile a quel rapporto così morboso. Turtle stessa viene raffigurata in una complessa fase di trasformazione. Domande come “pensi che tuo padre faccia bene a rifiutare il contratto sociale?” la spingono a riflettere. Nonostante siano molti a volerla sospingere verso l’esterno, l’intera sua metamorfosi si genera però in quello che Tallent chiama il “teatro privato” della sua mente.
Secondo Martin, la paura dovrebbe costituire per ognuno la regola, essendo il mondo “davvero un brutto posto”; proprio questo estremismo ha sempre alimentato l’attaccamento della figlia alla sua figura, che incarna l’idea stessa di sfida e di limite, cruciale nella fase dell’adolescenza. Ma lei, attraverso una serie di prove, supererà tale visione. Senza dubbio funzionali a comunicare un sottotesto così evidentemente fiabesco sono le numerose spie presenti nell’opera: la figura dell’orco e quella degli aiutanti, l’immagine del bosco e quella del labirinto, i temi della polarità morale, dell’immersione, del deforme. Proprio come nelle fiabe, la storia si sviluppa da un disguido, ossia dall’uscita dei protagonisti dalla loro dimensione, per l’appunto, extrastorica, se non addirittura edenica.
Sotto l’urto dei fattori esterni, la fedeltà di Turtle verso un uomo il quale, in realtà, la concepisce come un possesso, crolla. Ed è in particolare per l’impatto della Parola che questo avviene: ascoltando di nascosto una stramba chiacchierata fra Brett e Jacob, suoi coetanei simili ai personaggi comici shakespeariani, Turtle respira per la prima volta la brezza della libertà, sentendosi “meravigliosamente inclusa nella provincia delle cose che desidera, illuminata dentro dalle possibilità”. Nasce come individuo nel momento stesso in cui entra in dialogo con ciò che la circonda.
Tutto ciò ha un prezzo, che il finale del romanzo illustra nei termini più crudi. Per lo scioglimento dei nodi creatisi lungo la catena della narrazione, Tallent adotta uno stile che può ricordare ora McCarthy, ora Saramago, o Marìas, pur non potendo ancora raggiungere quelle vette. La sua prosa si fa a tratti secca, a tratti convulsa e incalzante. Le cateratte della liberazione per Turtle si aprono quando “sperimenta una gratitudine lacerante, sconfinata, una meraviglia per il mondo priva di mediazioni”, e decide di utilizzare per la sua stessa redenzione proprio quanto ha imparato dal padre: una disciplina militaresca, la più selvaggia ostinazione e la pura, cristallina assolutezza di un sentimento, che nel suo caso dall’amore si è rovesciato nel suo contrario.
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