Autore: Giuliana Ferri
Opera: Un quarto di donna
Anno: 1973
Poco più di un anno prima di morire, Giuliana Ferri, giornalista romana del PCI, pubblica presso Marsilio questa preziosa ricognizione sulla qualità dell’esistenza di una donna nel suo contesto ambientale.
Frutto dell’analisi, condotta per brevi capitoli, è il “discorso concreto” che l’io narrante trae dalle proprie “sofferenze astratte”.
Dove hanno radice?
In una sorta di spleen di massa e in particolare di genere, scrive la Ferri, un “disturbo di nostalgia che nasce chissà dove, e rende la nostra quiete troppo simile a una provvisoria morte di piccolissime dimensioni, simile a una paura tra virgolette di rimanere sola” – una “privata paura” guastata, come preciserà in seguito, “dal cuore arido del nostro tempo”.
Il “globo” della sua vita di donna è solo in apparenza una comfort zone. Qui infatti, per una metà legata al “mestiere di madre” (a sua volta “mai un intero”, sebbene lei sia “avvolta” nelle “necessità” dei due figli), per l’altra a quello di moglie (anche questo, un ruolo ricoperto in modo inevitabilmente parziale), deve contentarsi di balbettare “quarti di pensiero”. Così la sua vita non è completa, ma è quella di un “quarto di donna” o, per dirla con Simone de Beauvoir, di una “donna spezzata”. Tenuta alla catena da un acuto senso del dovere, trascorre il tempo “nell’impeto del vivere senza omissioni”, e un “mal di vita” la cattura allora al cinema, di fronte al possibile sfavillio di una Vita con la maiuscola, o nei momenti di ripiegamento su se stessa, o quando abortisce illegalmente e deve trovare nell’ambigua complicità del medico una sponda esterna a quella maritale.
Non è pensabile proseguire così: “si deve vivere o morire, ma non rovinare tutto”. L’unica via di salvezza starebbe nel gettare alle ortiche le “ragioni” che le stanno addosso “come una divisa”. Quindi “cominciare a esistere senza sigilli”, invece di cadere a capofitto nel “precipizio della vita”. Dopotutto, la libertà “non si calcola a episodi”, come magari verrebbe da immaginare nel mondo attuale (siamo nel 1973), caratterizzato da “un eccesso di civiltà immatura che ha reciso ogni coscienza antica troppo tempo prima della resurrezione, una filosofia sfasata nel tempo, un preannuncio di felicità, solo un preannuncio”. Ma come rompere quei legami che la bloccano?
Pur “avara di senso della collettività”, la protagonista non può sottrarsi al mondo dei salotti, cui è destinata, in quanto intellettuale progressista capitolina. La delusione è cocente. Vi scopre maschi “sguarniti come adolescenti”: vittime da una parte di un “contrabbando di impulsi naturali impastati e velleitari”, dall’altra di una pseudocultura dello stereotipo degna di provinciali conformisti. L’atmosfera che si respira in alcuni passaggi rimanda a “La terrazza” di Ettore Scola (1980), luminosa e tagliente tappa intermedia fra i due maggiori j’accuse mai girati sulla decadenza della nostra borghesia, “La dolce vita” di Fellini e “La grande bellezza” di Sorrentino.
Lo stile di scrittura della Ferri può ricordare, si parva licet, Marguerite Duras. A volte è un po’ artefatto, forse fin troppo elaborato, ma tanta è la forza di queste pagine da imporre di considerarle una delle più significative testimonianze del mondo borghese femminile durante il decennio nel quale, per quel mondo, in Italia tutto andava cambiando.
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