Autore: Gonçalo Tavares
Opera: Imparare a pregare nell’era della tecnica (titolo originale: Aprender a Rezar na Era da Técnica)
Anno: 2007
Traduzione dal portoghese: Roberto Francavilla (2011)
«Non ha il diritto di scrivere così bene alla sua età. Verrebbe voglia di dargli un pugno!», disse Saramago di Gonçalo Tavares nel 2004, dopo la pubblicazione del notevole Jerusalém.
Docente di Teoria della Scienza a Lisbona, Tavares è nato nel 1970 a Luanda, in Angola. La peculiarità di questo suo libro, oltre a una scrittura ricca d’immaginazione, eppur serrata e asciutta, dunque agli antipodi di quella del grande connazionale Antonio Lobo Antunes, è la struttura a tesi. Si tratta infatti d’una biografia tripartita (Forza – Malattia – Morte) che ripercorre la vita di Lenz Buchmann da quand’è ragazzo agli anni del successo nella medicina e nella politica, quindi alla morte – ma dall’interno, per dimostrare la fondamentale impotenza della visione del mondo che l’ha sempre sorretto.
Scopriamo che Lenz è un materialista di ferro, seguace del darwinismo sociale, affetto da “cinismo tragico” e “incapacità di empatia”. Legge gli eventi e le catastrofi naturali in termini di velocità e potenza, ma la sostanza della sua concezione è leopardiana, non futuristica: la natura, protesa a vivere come entità complessa, è in grado di cambiare, mentre le passioni restano identiche a se stesse, determinando la fatale, cronica debolezza umana (“esistevano, al contrario di ciò che sosteneva la frase biblica, cose nuove sotto il sole; quello che invece non esisteva erano cose nuove sotto la pelle”).
Anche per questo, “sistema degli uomini” e “sistema della natura” sono “incompatibili”; d’altra parte, nella nostra società non esiste pacificazione, ma domina la diade amicus/hostis, che non è inerte, ma attiva e operante. A questa dura legge nessuno dei personaggi che circondano Lenz (spicca Rafa “il matto”, ma anche “il grande uomo libero della città”) si può sottrarre.
Agli occhi del protagonista, l’unica via per rapportarsi al reale consiste, e qui emerge l’influsso di Palomar, nel farsi puro osservatore del dispiegarsi delle forze in campo. Certo, Lenz non osserva il mondo per coglierne il mistero e la meraviglia, come il personaggio calviniano, ma per constatarne la crudele aridità. Però agisce, seguendo la via che la “luce della tecnica” indica all’uomo. Non a caso, al centro del romanzo sta la mano di Lenz, il quale è chirurgo, “a contatto con gli elementi muti del mondo”, che rappresentano la spinta naturale verso la morte, e politico, cioè uomo tutto immesso nell’universo dell’agire. Obbedendo a un’oscura volontà di potenza in segno di rivolta contro la natura, egli non intende forse imporre un ordine alla società con la tecnica politica, dopo aver cercato di ripristinarlo da medico quando la natura violenta il corpo umano con le malattie? Se in sala operatoria il bisturi è ai suoi occhi “il messaggero della precisione e della rettitudine”, “la voce materiale dell’etica umana”, in politica il suo bisturi è un machiavellismo della peggior risma.
Questo slancio è tuttavia destinato ad arenarsi. Un giorno viene diagnosticato a Lenz un tumore al cervello (“il lupo era malato”). Nessuna tecnica potrà salvarlo. E nelle ultime pagine Tavares riproduce con ammirevole maestria la sua condizione d’inerzia crescente.
La tesi di base del romanzo prorompe con naturalezza e gradualtà dall’analisi della vita psichica di Lenz, sebbene la sua weltanschauung, espressa anche tramite similitudini e paragoni bellici o tecnico-scientifici, offra sempre prospettive stranianti; sul piano formale, il corrispettivo di questo approccio si riscontra nei titoli dei capitoletti, che sono spesso umoristici e spiazzanti (ad esempio Perché gli uomini della nettezza urbana parlano fra di loro? o Mentre guardi dall’altra parte, botte in testa), ma funzionali ai contenuti o al ritmo della narrazione, per esaltare o decomprimere il passo narrativo, poiché Tavares è autore che non spreca nulla.