Autore: Han Kang
Titolo: Atti umani (titolo originale in inglese: Human Acts)
Anno: 2014
Traduzione: Milena Zemira Ciccimarra (2017, edizioni Adelphi)
“Come può tutto quel sangue essere semplicemente insabbiato? Le anime dei defunti ci guardano. I loro occhi sono bene aperti”, scrive Han Kang in questa cruda ricostruzione del massacro di Gwangju, la sua città natale. Posta in essere nel maggio 1980 dall’esercito contro i giovani in protesta contro il governo golpista, l’“Operazione Lavish Holiday” era stata ordinata dal presidente Chun Doo Hwan. Vide l’uso sia di lanciafiamme, sia di munizioni bandite dalla Corte internazionale di giustizia; costò svariate centinaia di morti, forse migliaia. Chun cadde nel 1988, e qualche anno dopo fu condannato a morte; ma il presidente Kim Young-sam lo graziò.
Han Kang è giunta alla fama con un romanzo intenso e originale, “La vegetariana”. Ma se là troviamo una storia privata di pulsioni, privazioni e rapporti che deragliano, qui abbiamo di fronte una serie di singole figure di fronte al Titano dello Stato, che schianta come un fuscello chiunque gli si opponga, uccide i propri stessi cittadini e trasforma le vite dei sopravvissuti in parabole di disperazione.
L’autrice ricostruisce i tragici fatti del 1980 sparpagliandone gli elementi, attraverso sprazzi a prospettiva e focalizzazione variabile in capitoli autonomi, però tutti intrecciati. Notevole audacia strutturale. A supportarla, il nitore della forma, le potenti immagini, l’assoluta assenza di banalità. Ma anche il chiaro messaggio del libro: gli eccidi e le torture sono “atti umani”, così come gli atti d’amore compiuti dai giovani in corteo per salvare un Paese, o per sostenersi l’un l’altro.
L’uomo è dunque intrinsecamente malvagio? Ecco il quesito di fondo. Malgrado la generosità degli studenti, e nonostante perfino qualche soldato abbia mostrato qualche traccia di umanità, come Han Kang ammette verso la fine rievocando in prima persona la storia di quei giorni, la conclusione di alcuni fra i personaggi decisivi è che l’umanità sia caratterizzata da una “sostanziale barbarie”. La brutalità appare inscritta nel suo codice genetico.
Alla domanda sulla natura umana in senso morale ne fa da contraltare un’altra, sulla natura umana in senso fisico: dove va l’anima dopo la morte? Se ne parla in molti passi. La fusione tra le due questioni si trova nello straziante capitolo costruito dal punto di vista di Dong-ho, il personaggio da cui l’autrice, come scopriamo nelle ultime pagine, trasse ispirazione per la stesura dell’opera. Chi è Dong? È un quindicenne che vediamo qui, dopo averlo trovato attivo nei gruppi di opposizione, ormai moribondo, accatastato con la sorella ormai deceduta, e decine d’altri, su di una “torre di corpi” simile al “cadavere di qualche enorme bestia immaginaria, con decine di gambe che sbucavano da tutte le parti”. La narrazione autodiegetica ha un effetto molto forte: “il mio io-anima non aveva occhi; da dove veniva il sangue, quali terminazioni nervose suscitavano quel dolore?” – e poi: “Avrei ancora riconosciuto mia sorella adesso che era un’ombra?”. Non sono che alcuni dei numerosi passaggi del romanzo che ben rispondono al ben noto precetto di Franz Kafka.
È così che le lotte, gli slanci, i sogni dei giovani nel libro di Han Kang si spengono sotto il feroce martello della dittatura. Ma nessun oblio è possibile. Come dimenticare, infatti, quello scempio? Nel durissimo capitolo “Il prigioniero”, con al centro proprio le torture e il tema del ricordo della solidarietà fra manifestanti, fino alla selvaggia repressione militare, leggiamo queste parole, di rara efficacia: “quel gigantesco cuore di cui mi ero sentito brevemente parte fu fatto a pezzi e sparso al suolo come immondizia”. Il regalo della partecipazione politica fatto dai giovani più attivi alla propria nazione era da quest’ultima stato respinto con l’indifferenza degli adulti, poi con lo sfregio dell’umiliazione da parte dei politici al potere, infine con la violenza delle forze armate.
Daniele Rocca