Autore: Jean Reverzy
Opera: Il passaggio (titolo originale in francese: “Le Passage”)
Anno: 1954
Traduzione: Bianca Garufi (1964)
L’Italia piccolo e medioborghese degli anni Cinquanta – già riassorbiti e spenti nel degasperismo e nello scelbismo i fasti minoritari della Resistenza – era troppo impegnata a stordirsi o sognare con i primi telequiz e le gare musicali del “Musichiere”, di “Canzonissima” o di Sanremo per confrontarsi con la cruda verità. Immersi in ventiquattromila baci o in un blu confortevolmente dipinto di blu, come potevamo badare alla crisi sociale montante, alla persistenza del fascismo nelle prefetture, nella magistratura e nel giornalismo, o alla complessiva arretratezza culturale intrisa di bigottismo? Un senso vago di protesta si perdeva nelle fumisterie della canzonetta birichina da oratorio, nelle commediole dei piccoli eroi popolani o nell’idealismo individualistico à la Buscaglione: armi di “distrazione di massa”, come sempre. E un certo genere sia di film sia di libri (d’ogni orientamento) non poteva che incappare in bandi e censure: si pensi a Pasolini, Berto, Morselli.
Impossibile stupirsi, dunque, se un autore capitale quale Jean Reverzy, già compreso solo in parte nella sua Francia, da noi non fu tradotto all’epoca, ma con dieci anni di ritardo, e presto dimenticato. Anche nel 1964 la sua filosofia corrosiva rimaneva poco digeribile, nel Paese delle rotonde sul mare fra mille bolle blu, di “Non ho l’età” o “Viva la pappa col pomodoro” – il Paese in cui un inno all’amicizia come “Stand by Me” veniva impunemente stravolto in un predicozzo pieno di compatimento per il non credente come la “Pregherò” del Molleggiato. Che di lì a qualche anno avrebbe paventato la Grande Minaccia: “Chi non lavora non fa l’amore”, quindi, se scioperi, niente ricompensa notturna o serale dalla dolce metà.
Medico di professione, Jean Reverzy morì, forse d’infarto, solo cinque anni dopo questa sua gemma, vincitrice del Prix Renaudot. Sarebbero seguiti “Piazza delle angosce” (1956), anch’esso centrato sulla figura di un medico, e “Il corridoio” (1958).
“Il passaggio” fu concepito a Tahiti, dove Reverzy, convinto di trovarsi prossimo all’ultima ora pur essendo appena quarantenne, era andato a morire. Di ritorno in Francia, nel suo studio, che chiamava “la bara”, scrisse l’opera in diciotto mesi.
La trama è semplice: un personaggio di taglio conradiano, Palabaud, albergatore trasferitosi a Tahiti e dopo molti anni rientrato a Lyon perché malato al fegato, viene qui assistito dal più caro amico, un medico; al pari dei propri colleghi, questi si vede come un testimone permanente “del passaggio e della fluidità della vita”. I due si sono conosciuti proprio a Tahiti, tempo prima, e Palabaud racconta all’altro l’intera propria storia.
Nel romanzo, colpisce l’inesorabile assenza di banalità. Ne è privo anzitutto in merito agli scenari tahitiani, i quali non sono paradisiaci; al contrario, con il loro “spettacolo silenzioso e morale”, da cui “nasce un irresistibile malessere”, trasmettono al protagonista una sorta di nausea. Tale approccio, in parte esistenzialista, viene politicizzato: non sono forse stati gli occidentali, provenienti da un mondo in cui pesano più che mai le “forze che opprimono l’espansione della vita”, a innestare la decadenza nei mari del Sud, quasi come gli aborriti cinesi? Così Tahiti è divenuta il “paradiso dei vecchi libidinosi in pensione”.
Il mare rimane però il vero fratello e l’“unico grande amore” di Palabaud: proprio con il suo rimpianto tornerà in lui, a un passo dalla morte, l’amore per una vita da cui non avrebbe mai creduto di doversi congedare così presto. E Palabaud si illuminerà di una consapevolezza nuova, acuta e lancinante del reale. Pur abbandonato dalla compagna Vaite, la quale lo aveva seguito fino in Francia dalla terra natia, egli riuscirà infine a gestire “l’immenso pensiero della morte” con ragionevolezza, ripescando antichi ricordi sia tahitiani, sia francesi (memorabile la sequenza del collegio, violentemente anticlericale) e pacificandosi con essi. Nella sua ritrovata lucidità, scrive Reverzy, Palabaud “intravedeva lo strano universo che si stava schiudendo pian piano davanti a lui”, perché la morte “lo aveva scosso e svegliato”.
Il risultato dell’agonia sarà la conoscenza perfetta e compiuta, oltre che della realtà, anche del tempo, “questa cosa fluida e impalpabile che travolge la vita”. Del resto, eccetto forse il tremendo capolavoro autobiografico di Fritz Zorn, “Il cavaliere, la morte e il diavolo” (1977), forse nessun altro libro come “Il passaggio” analizza così a fondo la maestosa tragicità della morte per malattia e le misteriose metamorfosi che essa implica, tappa dopo tappa: dalle prime avvisaglie alle diagnosi alle radiografie (straordinaria è la scena in cui i raggi X di Palabaud denunciano polmoni “grigi come l’alba di un giorno di pioggia” e un cuore che batte “senza angoscia”; nelle radiografie, osserva l’io narrante, “una parte della realtà dell’uomo si rivela, benché questa sia soltanto l’ombra di un’ombra proiettata da un essere irraggiungibile, come se il mito della caverna si rinnovasse all’infinito”), fino al tracollo e poi all’autopsia su quell’”entità disabitata” che è il cadavere (altra gran sequenza): una crudezza fisiologica e filosofica che ci sferza, un salutare balsamo di verità.
Daniele Rocca