Autore: Jesùs Carrasco
Opera: Intemperie (titolo originale castigliano: Intemperie)
Anno: 2013
Traduzione: Andrea Carlo Cappi
La scrittrice Igiaba Scego (“Adua”, “La linea del colore”) ha accostato Jesùs Carrasco a Delibes e McCarthy. Due paragoni impegnativi, eppure motivati. Infatti questo giovane scrittore dell’Estremadura, nato nel 1972, plurielogiato all’esordio per “Intemperie” e in tempi più recenti autore di un libro premiato dall’UE, “La terra che calpestiamo”, sembra conoscere il valore della Parola, del suo potenziale carico di mistero. Proviamo a spiegarlo partendo dalla maldestra definizione di Alessandro D’Avenia, secondo cui questa scrittura è “un carotaggio nel reale dall’esterno verso l’interno” (un carotaggio verso l’esterno sarebbe del resto piuttosto inconsueto): effettivamente Carrasco trasfigura e tridimensionalizza il reale, scavandovi a fondo attraverso la forza evocativa delle parole. Soprattutto, rispetto ad altri autori d’oggi, spagnoli (Aramburu) e non (Ishiguro, MacEwan e molti altri), egli non si limita a narrare o analizzare, ma da un lato esibisce una compiuta precisione lessicale, dall’altro compie un lavoro immaginativo sulla lingua. Oggi lo fanno in pochi, con la comoda scusa dell’immediatezza dell’espressione spacciata per modernità espressiva; così i romanzi sono scarni e scipiti, e non meritano vita nel tempo.
Il giudizio di Igiaba Scego va accolto, poiché nel corso degli ultimi cinquant’anni nessuno come McCarthy – in cui l’autore di “Intemperie” stesso vede un maestro – ha saputo coniugare l’estro immaginativo e l’efficacia icastica delle metafore, dei paragoni, delle similitudini e delle metonimie con la precisione. Questo forse anche grazie al lungo esercizio che ha preceduto l’avvio di una produzione più complessa, come rivelò in una dichiarazione di qualche tempo fa.
La storia narrata in “Intemperie” non comprende nomi propri, ed è un misto fra la microepopea e l’apologo di sapore evangelico: un bambino in fuga per tragiche ragioni familiari (“gli mordeva lo stomaco il fiore nero della sua famiglia”) in uno scenario desertico caratterizzato da una “consistenza polverosa e rossiccia” sotto il perenne “alone giallognolo” del sole, incontra un uomo che lo porterà fuori da quelle secche, un rude pastore. Giorno dopo giorno egli apprenderà l’arte della sopravvivenza, dalla gestione del gregge di caprette all’eviscerazione (“davanti a lui, una tinozza traboccante di azzurri iridati, tele biancastre e forme globulose che si contorcevano in ogni possibile direzione”). Infine, mentre la figura del pastore andrà assumendo un sempre più evidente profilo cristico, il giovane sarà messo alla prova in solitaria, facendosi capace di affrontare la resa dei conti con il Nemico.
Il tutto, attraverso la lente metafisica di uno scenario – un “villaggio saturo di ombre e mura in rovina”- dove ogni atto e ogni parola assumono la semplicità e il peso di gesti simbolici, definitivi. Uno dei migliori esordi degli ultimi decenni.
Daniele Rocca