Autore: John Rechy
Opera: Città della notte (titolo originale in inglese americano: “City of Night”)
Anno: 1963
Traduzione: Bruno Oddera (1964)
Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta si allestì culturalmente il decennio più rivoluzionario della storia postbellica nordamericana. La beat generation, i nuovi registi e i grandi provocatori della Pop Art denunciavano l’insoddisfazione di giovani ormai distanti dal mondo dei padri, che avevano vinto la guerra e arricchito il Paese; sulle eterogenee note di Little Richard, Chuck Berry, Elvis Presley, dei grandi jazzisti, dei bluesmen o di Bob Dylan, tutta una schiera di ribelli senza una causa per cui battersi (“Rebel without a cause”, ossia “Gioventù bruciata”, uscì nel 1955), di frenetiche “ombre” (il gran film di Cassavetes, 1959) e di “spacconi” (“The Hustler” con Paul Newman è del ‘61) premeva per far sentire il proprio “urlo” (l’omonima opera di Ginsberg fu letta per la prima volta nel ’55). La rivolta di Berkeley sarebbe scoppiata nell’autunno del 1964.
Fu nel 1963 che John Rechy, texano, scrisse questo grande romanzo sulla galassia marchettara omosessuale. L’anno prima Baldwin aveva pubblicato “Another Country”, ma il testo di Rechy è, se non artisticamente più riuscito, certo più radicale: non solo per i contenuti, piuttosto espliciti, ma anche per la mobilità della forma di scrittura, che alterna i flussi baroccheggianti ai periodi secchi, il lirismo soffuso ai passaggi da commedia buffa. Il tutto sorretto da una fervida inventiva lessicale, anche al netto dell’occasionale prolissità.
Sotto ulteriori aspetti “Città della notte”, romanzo ancor oggi celebrato, si distingue da ciò che gli sembra simile. Come in “Sulla strada”, uscito nel 1957, s’impernia sul tema del viaggio, e come nel “Journal du voleur” di Jean Genet, del ’49, a muoversi da una terra all’altra è un reietto. Però mentre Genet ambientava le vicende in tutt’altro contesto (l’Europa fra ‘32 e ‘40) e Kerouac non metteva in scena un viaggiare settoriale, Rechy narra di un giovane – in buona parte lui stesso – che vaga per la terra del Grande Sogno con il preciso intento di frequentare solo i reietti, trascinato dagli interrogativi sulla propria tormentata sessualità. Compie un “viaggio coattivo attraverso vite sommerse” per le “stritolatrici città d’America”, sfingi che gli pongono domande pericolose, fra “profughi” ed “esuli” come lui, maschere (in un mondo di maschere) schiave di una “urlante solitudine” e del terrore dell’effimero; vittime dell’assenza di compassione (concetto-chiave, per i nordamericani), sempre dolorosamente gioiose, esse sono in fuga da poliziotti sadici, dai conformisti, dal Vuoto. E in cerca di qualcosa che nessuno sa definire.
Allontanandosi da El Paso, lo “youngman” si sposta fra New York, “giungla di edifici lucenti come coltelli”, e “Lost Angels” (calembour poi ripreso da Jim Morrison), fra Hollywood, “nichilistica capitale del cinema”, e la “magnifica leggiadria impressionistica” di San Francisco. Obiettivo, immergersi nelle acque gelide del presente pur di sfuggire alla paura del futuro. “Ero follemente convinto”, ricorda, “che se mi fossi concentrato soltanto sull’Oggi, lo spettro del distruttivo domani sarebbe scomparso”. Così vive agganciando uomini danarosi nei parchi o nei bar per rapinarli e sentirsi libero, oppure prostituendosi con la massima freddezza, in un’eccitazione “sospesa in precario equilibrio su un abisso minaccioso e disperato”. Gli manca tuttavia ogni prospettiva di redenzione, e il suo si rivela un cammino nelle tenebre, sempre più lontano dalle illusioni della gioventù. La quale, a ben vedere, dice questo Rimbaud della società di massa, “è una lotta contro – e, paradossalmente, pertanto una lotta verso – la morte: un suicidio dell’anima”.
Nel romanzo, il protagonista ricopre a lungo il ruolo dell’osservatore, come accade quando assiste al penoso tracollo di una celebrità gay, il bellissimo Lance, o quando ascolta i sognanti monologhi del Professore, o quelli del travestito Miss Destiny, o, ancora, nella scena in cui l’ubriaco Carl smonta la patetica prosopopea di Neil, fanatico di costumi e pistole. Sono solo alcune delle figure che Rechy presenta, spesso grottesche, e tutte scolpite con mano sapiente. Finché ci si trova al gran finale, con il Mardi Gras di New Orleans, l’universo infernale del caos; e qui, in un clima dionisiaco, l’io narrante sarà posto al centro della scena. Con la pura forza della logica, un uomo lo spingerà a capire la ragione della sua continua fuga sospesa fra solitudine e desiderio: che cosa cercava fra gli “outcasts”, alla fin fine? Un dolore che lo destasse alla verità della vita? O era tutto solo un “viaggio verso la perdita dell’innocenza”? Era poi vero che “solo in una sorta di turbolenza l’io deve tentare di trovare se stesso”, e che l’amore è un mito?
La risposta giace nelle ultime pagine del magnifico bildungsroman.
Daniele Rocca