Autore: John Steinbeck
Titolo: Furore (titolo originale in inglese: The Grapes of Wrath)
Anno: 1939
Traduzione: Sergio Claudio Perroni (2019, Bompiani)
Trattandosi di un romanzo monumentale, procederemo per paragrafi.
IL GRANDE ROMANZO AMERICANO? È QUI!
Da ben più di un secolo al di là dell’Oceano si discetta intorno al Grande Romanzo Americano, tanto che Philip Roth nel ‘73 intitolò provocatoriamente così uno dei propri libri (non il migliore: troppo baseball). Ma perché cercarlo ancora? “Furore” di John Steinbeck, premio Nobel, ha tutti i requisiti per esserlo: un sostrato culturale fatto di suggestioni bibliche, mito della frontiera e quella peculiare fusione di spirito individualistico e comunitario che ha fatto la parte migliore della storia americana; una forma cangiante, sempre adatta alle sue varie funzioni; una storia avvincente, che rievoca i destini di tutta una collettività; una galleria di personaggi e vicende rappresentativa del caleidoscopio nazionale, con spunti profetici.
LE CONSEGUENZE DI UN CAPOLAVORO D’ASSALTO
“Furore” vinse il premio Pulitzer e trionfò negli States sul punto di uscire dalla recessione, ma la sua impostazione era chiaramente socialista: ciò portò Steinbeck, il quale di lì a poco sarebbe stato corrispondente di guerra, a finire nei dossier dell’FBI e a subire pesanti accuse dagli agrari della California, che al cap. 22 faceva classificare da un personaggio del romanzo come “dipendenti” dalla West Bank e che accusava esplicitamente di semischiavismo. Con ogni probabilità, la vibrante polemica contro la legge, ma anche la rilettura in chiave dissacratoria della storia nazionale e la denuncia del ruolo dei provocatori e delle violenze poliziesche nei conflitti di lavoro, nonché della strumentale demonizzazione dei “rossi” con la scusa della dittatura in URSS, avevano compromesso l’immagine di Steinbeck agli occhi dell’establishment.
LA STRUTTURA, LA FORMA, I TEMI
Questo testo, rispetto al precedente gioiello di Steinbeck, “Uomini e topi” (1937), è molto più corposo, ma si snoda lungo una serie di capitoli, il più delle volte brevi; alcuni sono essenzialmente narrativi, altri descrittivi; alcuni sferzanti, altri di decompressione, altri lirici. Questo perché, possiamo dirlo con schiettezza, Steinbeck è un maestro assoluto della narrativa, e sa sempre cosa fare. A seconda delle sequenze, il suo stile è talora iterativo, solenne, maestoso, riproducendo il passo dell’epos biblico, talora vario, multiforme, agile e dialettico, con un mimetismo particolarmente efficace nei dialoghi. Non poche sono le scene caratterizzate da uno humour popolaresco, irruente.
Sul piano tematico, secondo la più tipica tradizione americana (Emerson, Whitman, Thoreau, Paine), è posto al centro il rapporto fra natura, individuo e collettività, con uno spiccato umanesimo populista: come quando l’io narrante, all’inizio del capitolo 5, osserva: “(…) perché non si può essere proprietari se non si è indifferenti”. C’è un rimedio? Più volte lo si adombra, e sotto questo aspetto potremmo dire che Steinbeck superi il populismo virando al socialismo: si tratta delle necessità di organizzare i reietti contro lo sfruttamento. “Due uomini non sono soli e confusi quanto può esserlo uno”, leggiamo, in uno di quei passaggi profetici che rendono unico questo grande libro. E più avanti: “la repressione serve solo a rinforzare e unire gli oppressi”.
LE FIGURE DELLA STORIA
L’avvio di “Furore”, il capolavoro sulla Grande Disillusione Americana, è all’insegna della pura materialità naturale, con la polvere, nient’altro, quale assoluta protagonista. Ricopre come una coltre isterilente i campi ed è, ancor più del crollo di Wall Street, la grande causa della crisi: è questa la prima delle molte descrizioni realistiche, ma al tempo stesso simboliche offerte da Steinbeck. In seguito si vedrà che la verità ha un volto ancor più atroce. Le banche, spesso paragonate a mostri fuori controllo, proprio come la polvere che si posa su tutto, hanno ormai invaso l’economia. Ed è su mandato di invisibili poteri finanziari che centinaia di trattori vanno distruggendo senza pietà i campi dei piccoli coltivatori corrosi dalla polvere. Questo sciacallaggio non avverrebbe però se a guidarli non ci fossero delle persone. E chi? Quegli stessi individui ridotti alla fame dal Sistema. Le banche inoltre sollevano da ogni concreta e diretta responsabilità i datori di lavoro, in un circolo vizioso che sequestra la facoltà stessa di pensare da parte degli esseri umani, costringendoli a una specie di paralisi; e che produce unicamente povertà. Questo soffoca l’american dream e ingenera del razzismo fra i privilegiati dell’ovest e gli “Okies”, cioè coloro che attraversano l’Oklahoma per cercare altrove lavoro. Come i membri della famiglia Joad, si sono lasciati alle spalle, dopo lotte, sofferenze ed esitazioni, la terra degli avi. Imboccata con una “spaventosa fede”, scrive Steinbeck, la Route 66 (“la strada madre, la strada della fuga”), si dirigono a carovane, “come cimici”, verso l’Eldorado californiano. Vi giungeranno solo dopo un percorso a ostacoli in un Paese ostile, al capolinea di una serie di tappe – tutte tragiche, eccetto quella al bar di una coppia di coniugi solidali e quella all’accampamento statale autogestito.
Prende forma in queste pagine una straordinaria galleria non solo di scenari naturali (come il deserto, al cap. 18), ma anche un perfetto sistema di personaggi, alcuni dei quali rimasti nella storia della letteratura: dall’impulsivo Tom Joad (se ne ricorderanno Guthrie e Springsteen, il cui toccante brano ispirato al monologo finale di Tom è stato interpretato anche in italiano) all’ex reverendo Jim Casy, il quale dice: “Non c’è nessun peccato e nessuna virtù. C’è solo quello che la gente fa”, e questo realismo spoglio, diretto, è condiviso da Tom. Poi troviamo Ma’, con la sua “nitida, equilibrata bellezza”, “infallibile come una dea” (ben lungi dallo scialbo stereotipo portato poi sullo schermo da John Ford), il rovescio della svagata e timorosa Rose of Sharon. Corrispettivo maschile di Ma’ per la morale eroica, Tom è a sua volta il rovescio del rinunciatario zio John, uno spiantato solitario pieno di sensi di colpa. E ancora: l’alienato ragazzo Noah, che vive “dentro una strana casa silenziosa”, è l’antitesi perfetta di Nonno, vecchio, ciarliero e sanguigno. Questi muore alla partenza, Nonna all’arrivo: simbologia piuttosto chiara.
LA RIDUZIONE CINEMATOGRAFICA
Dispiace che il già citato film di John Ford (1940), sebbene impreziosito dall’interpretazione di Henry Fonda nelle vesti di Tom Joad e dalla mirabile qualità della fotografia di Gregg Toland, non riproduca l’ampio respiro del romanzo. Cosa ancor più grave, si conclude (la sceneggiatura è di Nunnally Johnson) senza la durissima scena finale, una delle più strazianti invenzioni della narrativa novecentesca. Ford la sostituì con il classico pistolotto hollywoodiano sulla speranza in un domani migliore, proprio l’anno dopo che la scialba tautologia “Domani è un altro giorno” chiudeva il film forse più sopravvalutato della storia, “Via col vento”.
Daniele Rocca