Autore: José Revueltas
Titolo: Le scimmie (titolo originale in spagnolo latinoamericano: El apando)
Anno: 1969
Traduzione: Alessandra Riccio (2015, edizioni Sur)
Nella splendida postfazione (1976) a questo racconto, oggetto di numerosi attenti studi, Elena Poniatowska, una nobildonna che fu autrice del romanzo-reportage sul massacro di Piazza delle Tre Culture “La noche de Tlatelolco” (1971), definisce l’intellettuale messicano José Revueltas come “l’angelo ribelle di molte divinità differenti”.
Irriducibilmente rivoluzionario, quindi in rotta sia con l’ortodosso Partito Comunista, sia con la Lega di Spartaco, isolato nel mondo della cultura e osannato dai giovani radicali, più volte in prigione, Revueltas (1914-76) era un maudit umile, sempre disposto ad ascoltare e a comprendere, ma anche a battersi con chiunque lo attaccasse, come fecero i compagni comunisti per punirlo della sua opera “Los dias terrenales” (1949), dove, da sinistra, ne metteva in dubbio la democraticità effettiva – ancora in “Los errores” (1964) avrebbe deplorato le purghe del Partito.
Fu sempre imprevedibile. Dopo i disordini del 1968, rimase internato due anni nel carcere di massima sicurezza di Lecumberri; fu qui che, durante la detenzione, scrisse e ambientò “El apando” (letteralmente “La cella di rigore”). Traspose però quell’esperienza in chiave allegorica e grottesca, senza dimenticare ciò che già gli era stato criticato dai compagni di Partito, ossia l’impostazione esistenzialista (nel 1960 aveva scritto una lettera allo stesso Sartre): emerge sia nell’assetto generale, sia, in modo esplicito, quando nel passo sulla “vicinanza sempre incompleta” di segni e oggetti si fa riferimento a quel tema dell’opacità cui Sartre e Merleau-Ponty avevano fatto ricorso analizzando fenomenologicamente il pensiero, il linguaggio, la materia.
Queste cinquanta pagine sono tuttavia l’opposto di un trattato. Sono percorse da una vorticosa scrittura a flusso, certo, meno frammentaria che in Hubert Selby jr. (“Ultima fermata a Brooklyn” è del 1964), ma ugualmente bruciante; in contesto sudamericano, a breve ritornerà nel Garcia Marquez de “L’autunno del patriarca” (1975); non è una scrittura serrata e coupé come quella del paraguaiano Augusto Roa Bastos (“Io – Il supremo” uscirà nel 1974), ma appare più incalzante e visionaria, se ci spostiamo in Europa, di quella di un Saramago. Caratteristica utile allo scopo, dato che Revueltas, attraverso il filtro dei pensieri di tre detenuti sorvegliati dalle “scimmie”, cioè dai secondini, dipinge un microcosmo concentrazionario allucinato, e distante da ogni dimensione antropica.
La questione sottesa è inequivocabile: quello del Messico di questa fase storica, o tout court degli uomini, è alla fin fine un mondo di bestie, se non in atto, almeno in potenza? La celle del titolo è la camera di tortura in cui tutti ci troviamo? Per intenderci: quella del sartriano “Huis clos” (“A porte chiuse”, 1944), anch’esso basato su tre protagonisti?
A questa situazione Revueltas aggiunge un lievito tutto personale. Per sopravvivere alla primitiva aggregazione semiferina con i compagni di prigionia e i secondini, una “specie di convivenza distorta e nuda”, Albino e Polonio sono decisi a farsi portare della droga dalle rispettive aiutanti: in particolare, dalla madre del Coglione (El Carajo, nell’originale), l’ultimo del trio, oggetto di scherno da parte di tutti, dunque completamente solo. Ha solo sua madre. Nel contesto di un assoluto degrado che viene ricostruito per sprazzi, è memorabile il ritratto della donna, rovescio esatto della Vergine. Ricorda “una mole di pietra, appena scolpita con un’ascia di selce del periodo neolitico, grande, pesante, spaventosa e solenne”, e più avanti “una Mater dolorosa barbara, non levigata, fatta di fango e pietre e paglia, un idolo vecchio e rotto”. Il suo arrivo, e quello delle compagne dei due, come spezzando un complesso equilibrio, segnerà l’inizio di una colossale rissa fra secondini e detenuti – il trionfo della bestialità. Al termine, regnerà un silenzio completo, “subacqueo”, dice Revueltas, in cui i vari “segmenti” d’azione risulteranno “armonizzati nella loro unità esteriore, visibile, non dal laccio di una coerenza logica e causale, ma al contrario proprio dal filo rigido e freddo della pazzia”. Il “balbettio dell’anima” e l’osceno, dopo aver punteggiato il breve arco della vicenda, si saranno scomposti come in un quadro cubista, e infine accartocciati su se stessi. La sarabanda sarà a quel punto finita, l’incendiario carnevale concluso. Su tutto aleggerà un sentore di morte.
Da “El apando”, concluso nel marzo 1969 dopo un mese e mezzo di lavoro, nel 1975 Felipe Cazals trasse un film.