Autore: Joseph Roth
Opere: Fuga senza fine – Una storia vera (titolo or. tedesco: Die Flucht ohne Ende), 1927; Tarabas – Un ospite sulla terra (titolo or. tedesco: Tarabas, ein Gast auf dieser Erde), 1934
Traduzioni del tedesco: Maria Grazia Manucci (Fuga senza Fine, Adelphi) e Luciano Fabbri (Tarabas, Bompiani)
Settembre 1894. Nella comunità ebraica di Brody (attuale Ucraina) nasce, da padre austriaco e madre ebrea, Joseph Roth. Il futuro scrittore, ultimati gli studi, si arruolerà volontario nella Prima guerra mondiale. Al ritorno, scriverà su giornali di Vienna e Berlino, fuggendo però in Francia all’impennarsi dell’antisemitismo. Dopo molti viaggi, e molti libri, morirà nel pieno di un delirium tremens a Parigi, a soli 45 anni, forse anche per i sensi di colpa in seguito all’internamento in manicomio della moglie (assassinata poi in piena guerra dai nazisti: programma Aktion T4).
Come gli altri due giganti Arthur Schnitzler e Stefan Zweig, suo caro amico, Roth è figlio dell’impero asburgico e maestro del romanzo breve; patendo ancor più di loro il dramma dello sfaldarsi di una grande realtà multiculturale come quella in cui ha vissuto l’intera giovinezza, si concentra spesso sul rapporto fra individuo e Grande Storia. Da qui il senso di straniamento, melanconia e frustrazione che domina molte sue pagine.
Nel caso di questa folgorante accoppiata di romanzi, la narrazione ruota attorno ai caratteri di Franz Tunda e Nikolaus Tarabas. Entrambi affermano se stessi in tempo di guerra, ma con la pace incappano nel principio di realtà, e nella verità che esso li costringe a scoprire: il mondo non oscilla solo fra vittoria e sconfitta, vita e morte, bensì anche fra nostalgia e ricordo, passione e indifferenza, perdita e disordine. In modo paradossale, quell’io che è stato vittorioso in trincea, cioè nel momento delle scelte fatali, ha finito per polverizzarsi nei mille sé della vita quotidiana.
I due romanzi, come il successivo La leggenda del santo bevitore, sono in buona misura autobiografici. Non a caso, Roth li innerva della propria stessa profonda volontà di disappartenenza. Quando il suo Tunda, per sfuggire alla guerra, si rifugia in Siberia, ecco che rimane “senza nome, senza credito, senza rango, senza titolo, senza soldi e senza professione”, non avendo più “patria né diritti”, ma felice; e Tarabas, dopo una vita di soprusi, da temuto colonnello diviene vagabondo, entrando a far parte della “buona comunità dei senza patria, con costumi propri, proprie leggi, a volte una propria giurisdizione, propri segni, una propria lingua” – anch’egli felice.
Né l’autobiografismo si arresta qui. Non in guerra, appunto, ma nei viaggi, nel dolore e soprattutto lontano dalla tecnologia, che Roth detesta, Tunda e Tarabas scoprono la verità. Il primo ne viene sopraffatto. Al pari dell’autore, è vissuto nella terra dei soviet (Roth combatte alcuni mesi nell’Armata Rossa durante la guerra civile; nel ’26 torna deluso da un nuovo viaggio in quelle lande): il più amaro disincanto catturerà Tunda in una Berlino demolita satiricamente e in una Parigi fiabesca. La sua evoluzione è complessa: ogni uomo, dice Roth, è in cammino sulla strada del proprio compiersi così come se andasse dipingendo il proprio stesso ritratto, e siccome la guerra ha una “somiglianza fraterna con la morte”, in qualità di ex combattente il suo protagonista, dopo la guerra, rinasce; ma solo al capolinea di una lunga serie di peregrinazioni, fisiche e sentimentali, si potrà dire che abbia “portato a termine la propria faccia”.
Dal canto suo Tarabas, il quale ha imposto la propria autorità su di un’inerme cittadina “come un re d’acciaio luccicante”, fa della verità – che a lui antisemita si rivela proprio attraverso il confronto con un ebreo – la leva per rovesciare tutto un sistema di valori. Diversamente da Tunda, però, riesce a imporre il proprio io reale su quel sé che le leggi della storia gli hanno sovrapposto, e si trasforma in vagabondo, adempiendo alla remota profezia di una tzigana, che lo prevedeva “assassino” e “santo”.
Roth è un autore brillante, fra i meno scontati nella scelta delle immagini e nell’ironia (si pensi alle descrizioni del signor Marcel de K. in Fuga senza fine o del generale Lakubeit in Tarabas), oltre che fra i più incisivi, come quando, nel romanzo del ’34, ricostruisce la genesi e lo svolgimento di un pogrom. Ben dosato, fruttuoso e sempre originale è, poi, il suo ricorso a quello che Barthes chiamerà “effetto di reale” – movimenti o dettagli tattili, visivi, sonori non necessari al narrato, quindi anche inattesi, e vivificanti.
Al di là dell’impianto autobiografico e delle analogie fra i percorsi dei protagonisti, va detto che questi due romanzi conservano ciascuno la propria singolarità. La spinta satirica e il pirandellismo sono propri unicamente del primo: è qui che si denunciano a più riprese da un lato la decadenza dell’Europa, dall’altro la generale mascherata politica e sociale. La forma di ballata (con iterazioni formulari, apostrofi ai protagonisti, sprazzi lirici ed enfatici…) riguarda invece solo Tarabas, che in questo ricorda il Taras’ Bulba di Nikolaj Gogol’ (1835), L’armata a cavallo di Isaak Babel’ (1926) e il misconosciuto gioiello Il cavalier bandito e la sposa del cielo (1931) dello scrittore slesiano Vladislav Vančura (ucciso dai nazisti in quanto partigiano dopo l’assassinio di Heydrich). Il regista František Vláčil ne trasse un capolavoro in bianco e nero: Marketa Lazarová (1967).