Autore: Lev Nikolaevic Tolstoj
Opera: Chadži–Murat
Anno: 1904 (prima ed.: 1912)
Traduzione dall’inglese: Milli Martinelli (2018; I ed.: 1994)
“Ecco, ho ricordato questa morte nel vedere il cardo straziato in mezzo ai neri campi arati”.
Così si chiude uno degli ultimi scritti creativi di Tolstoj, quasi al capolinea della sua parabola artistica.
L’uomo di Jasnaja Poljana aveva iniziato a scrivere nei primi anni Cinquanta dell’Ottocento, raggiungendo negli anni vertici assoluti con “Guerra e pace”, “Anna Karenina”, “Resurrezione”, più vari romanzi brevi (“La sonata a Kreutzer”, “La morte di Ivan Il’ic”); e divenendo, anche grazie ai continui interventi per la pace e la distribuzione di proprietà ai poveri delle campagne, popolare in tutto il mondo. Quest’ulteriore prova di abilità, improntata a modelli epici come il “Boris Godunov” di Puskin (1831) e il “Taras Bul’ba” di Gogol’ (1835), era quindi ormai superflua per Tolstoj, il quale nel 1855 aveva fra l’altro già pubblicato i superbi “Racconti di Sebastopoli”, sulla guerra di Crimea.
La vicenda è ambientata nel 1851. Chadži-Murat, fra i condottieri della guerra d’indipendenza cecena dai russi, per contrasti con il proprio leader politico si è allontanato dai vecchi compagni; di lì a poco, vistasi sequestrare la famiglia per vendetta, ha offerto collaborazione proprio ai russi, chiedendo loro in cambio un aiuto per liberarla. Quando la loro protezione comincerà a ricordargli una reclusione e il loro temporeggiare un inganno, egli passerà all’azione, morendo in fuga nel tentativo di raggiungere i suoi, al termine di strenui combattimenti.
Come in tutte le opere di Tolstoj, vera scuola di scrittura, a conferire splendore alla pagina sono il nitore con cui vediamo raffigurati gli ambienti e i personaggi fra le tensioni e le rovine, qui indotte dalla guerra. Di più: la gestione dell’intreccio è funzionale a un formidabile j’accuse rivolto all’intera catena del potere.
Pacato – come tutti i “santi” tolstojani – e austero, Chadzi esibisce un’affabilità che pare stridere con l’indole sanguigna e la ferrea determinazione. È l’eroe del racconto, ma non è solo, sulla scena. Tutt’intorno alla sua storia, cui una minuziosa attenzione in particolare per i suoni, i costumi e le espressioni restituisce la più compiuta vividezza, si muove un ventaglio di attori secondari, che contribuiscono a fare di questo, alla fin fine, un romanzo corale (si pensi ad Avdeev, il racconto della cui morte potrebbe aver dato spunto a Remarque per il suo “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, o a Butler, l’infantile idealista della guerra). Ciò dà maggior energia alla denuncia della decadenza russa e alla condanna di meschini burocrati, spocchiosi militari, fatui aristocratici. Lo stesso zar Nicola è dipinto come un mondano dongiovanni che, in merito alle istanze emerse in terra cecena, adotta un provvedimento da Tolstoj definito “crudele (…), insensato e disonesto”; l’intero suo ritratto è intinto nel sarcasmo.
Con sferzate altrettanto severe l’autore riferisce della guerra: il breve capitolo XVII sul villaggio devastato dai russi e molti altri passi suggeriscono come il popolo, così caro a questo scrittore, sembri tristemente destinato a finire sempre ostaggio di ciniche decisioni assunte a distanza dai potenti. Tolstoj, che pure nel 1905 si dirà allarmato, in quanto pacifista, per i moti rivoluzionari nelle grandi città russe, integra la rappresentazione di questa dinamica evocando con il consueto realismo la struttura piramidale dell’autocrazia. Di passaggio in passaggio, la clamorosa decisione di Chadzi di consegnarsi ai russi e la sua richiesta di aiuto vengono via via filtrate e distorte dai vari comparti d’una società politica corrotta – tranne alcune eccezioni – e, nella propria ipocrisia, incapace di comprendere quel mondo incontaminato da cui un simile eroe proviene.
Al disopra di tutto, dall’inizio alla fine sulle sciagure umane occhieggiano le stelle, spesso richiamate da Tolstoj: forse come un divino elemento ammonitore che si può relazionare all’altro filo rosso del testo, la concezione della morte come “momento supremo della vita”.
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