Autore: Pamela Moore
Opera: Cioccolata a colazione (titolo originale in inglese americano: “Chocolates for Breakfast”)
Anno: 1956
Traduzione: Tommaso Giglio (1957)
Quello che Pamela Moore pubblicò nel 1956 è forse il miglior romanzo mai scritto da un diciottenne. Quasi coevo del melanconico “Buongiorno, tristezza” (1954), firmato da un’altra enfant prodige, Françoise Sagan, il volume riscosse un successo planetario. Ma non era nata una nuova stella sul proscenio letterario d’America, proprio perché la diagnosi socioculturale presente nel libro era corretta: i mass media, nonostante i tempi stessero cambiando, erano ancora ostaggio dei benpensanti, e trattarono quella fragile ragazza come un bizzarro corpo estraneo al panorama artistico. Dobbiamo stupirci se i suoi testi successivi, pur tutti di alto livello, non furono altrettanto popolari?
Passarono anni in cui Pamela Moore studiò alla Sorbonne, si sposò ed ebbe un figlio. Non cessò di scrivere, ma la frustrazione per il riflusso della sua notorietà dovette abbatterla. Si uccise il 7 giugno del 1964. Curiosità: di lì a un mese nacque la cantante Courtney Love, che i genitori chiamarono così proprio in riferimento alla giovane protagonista di “Cioccolata a colazione” (cfr. il ricco sito dedicato a questo romanzo-culto).
Courtney Farrell si sente un’esule nel suo stesso Paese perché appartiene a quella “generazione perduta” che non riesce a emanciparsi dal mondo degli adulti, vincitori della guerra, e nemmeno può ribellarsi davvero (“la sola cosa rivoluzionaria ammessa oggi in America è un nuovo reggiseno”, osserva un personaggio), ma solo ballare, bere o drogarsi. Mentre la sua compagna di stanza al college, Janet Parker, è pronta a gettarsi a capofitto nella vita, e proprio per questo, data l’”indifferenza del mondo” verso i giovani, corre verso lo scacco, Courtney appare più problematica, “alla ricerca della verità”. Senza speranza, però. Come spiega l’autrice, “nel momento in cui avrebbe creduto di scorgerla si sarebbe messa a urlare, poi l’avrebbe perduta di nuovo, perché in cuor suo non desiderava trovarla veramente”. Quello dei teenagers più consapevoli, si noterà molto più avanti, verso l’epilogo, è in questi anni “un furore simile a un desiderio di auto-distruzione”.
La vicenda consiste in una serie di quadri interconnessi e si svolge tutta in seno alla upper class. Quello cui essa dà origine però non è certo, come scrissero sprezzanti i giornalisti del “New York Times” nel necrologio per l’autrice, solo un “romanzo su di una adolescente confusa”. È anzi, e soprattutto – come in Europa assai meglio si comprese, nonostante il sequestro e i processi intentati alla Mondadori in Italia -, un devastante j’accuse contro il puritanesimo che imperava non solo sulle colonne del “New York Times”, ma più in generale ai quattro angoli degli Stati Uniti (in ciò, questo libro è seminale rispetto ai successivi, magnifici “La campana di vetro” di Sylvia Plath e “Il gruppo” di Mary McCarthy, entrambi del ‘63). I due nuclei propulsori di questo clima mefitico sono New York e Hollywood. La Mecca del cinema è sotto il dominio dei “Guardiani del Mito”, un luogo in cui “si modellano idoli, si scrivono inni” e “gli uomini sono prigionieri di una irrealtà senza tempo”. Meglio le poesie dei “Fiori del Male” e i romanzi di Evelyn Waugh, che Courtney legge: per cercare, ancor più della verità, un’impossibile innocenza. Questo è il blakiano leit-motiv dell’opera.
Giunta ai sedici anni, un po’ come un altro gran personaggio di Pamela Moore, ossia la Brenda Stilwell del “Maneggio”, Courtney individua nel sesso la via per l’emancipazione e il ritorno all’innocenza. Ma il crollo è per lei dietro l’angolo. “Sai cosa significa udire il respiro della verità, sentirne la presenza nelle tenebre e non riuscire a raggiungerla?”, chiede, nella più cupa disperazione. “Sono incatenata (…) alla mia infanzia; vedo il putridume che copre la terra avvicinarsi ai mei piedi e non riesco a fuggirne lontano”, aggiunge poi, conscia di essere già “decadente, alcolizzata, blasé” – in una parola, avvezza, come troppi altri, ai paradisi artificiali pur di sottrarsi al grigiore di una società marcia e malata, quindi a una decadenza in solitaria. Tanto più che anche il contesto giovanile non fa che offrirle il classico bestiario borghese: si pensi ai frequentatori del “cocktail di protesta contro il caldo”, alle “bianche giacche di Yale” o ad Anthony, “una specie di simbolo di decadenza” in perenne posa, con il suo “stato d’animo byroniano”. Courtney, se prima si lascia irretire dalla soluzione posticcia dell’isolamento edonistico, in seguito capirà. “Questa è evasione”, osserva fin dal primo incontro con Anthony, “non liberazione. Sto tradendo me stessa, perché non faccio nulla che possa aiutare la mia redenzione”. L’indignazione ha generato inazione, lo sdegno si è spento negli eccessi.
D’altra parte, secondo l’amico Charles, ribellarsi a quello che, pure, è con ogni tragica evidenza l’infantilismo nazionale, sarebbe per l’americano medio un “attentato contro il proprio spirito”.
Ma allora qual è la strada da seguire?
Sarà la vita stessa a trasmettere a Courtney un messaggio: solo entrando nella storia, e non sognando improbabili regressioni, si può almeno tentare di sopravvivere, e incidere sulla realtà.
Daniele Rocca