Autore: Siegfried Kracauer
Opera: Georg (titolo originale: Georg)
Anno: 1934 (I ed.: 1977)
Traduzione: Mauro Tosti-Croce (1985)
Domanda a bruciapelo: quali sono i più interessanti romanzieri tedeschi degli anni di Weimar e dintorni? Non è facile rispondere. Sul podio si potrebbero collocare i fratelli Mann, cioè Thomas (che in quel periodo scrive “La montagna incantata” e “Giuseppe e i suoi fratelli”) e Heinrich (“L’angelo azzurro”). Poi Jakob Wassermann, con il suo abissale “Il caso Maurizius” (1928), poco sotto ad Alfred Döblin, il geniale autore di “Berlin Alexanderplatz” (1929). Ma penalizzeremmo sia Erich Kästner (“Fabian”, 1931) e Hans Fallada, con il celebre “E adesso, pover’uomo?” (1932), sia Siegfried Kracauer, il quale nel 1933-34 in Alta Savoia, con Weimar ormai affossata dai nazisti, scrisse questo “Georg”, tagliente romanzo sociale. Un po’ per la sua stessa esitazione – trattandosi di un testo a chiave, in cui cioè si allude a figure della realtà -, un po’ per lo scetticismo di qualche editore, Kracauer non riuscì a farlo pubblicare, emigrando negli USA e morendo nel 1966 senza essersene mai più interessato. Il testo vide la luce svariati anni dopo.
Noto elzevirista, amico di Theodor Adorno, Kracauer fu autore di studi sul romanzo poliziesco, sul cinema coevo e di penetranti analisi sociologiche. Memorabile quella, al vetriolo, contenuta ne “Gli impiegati” del 1930; molti gli articoli in cui sviluppava una disamina del milieu mondano tedesco. Di questa finezza d’osservatore fece il perno della propria scrittura creativa.
Ambientato fra 1922 e 1925, “Georg” delinea la fase cruciale della parabola di un giovane omosessuale realista, liberale, introverso il quale, per entrare a contatto con qualcosa che gli dia la sensazione di vivere, si fa assumere al “Morgenbote” (che è probabilmente la “Frankfurter Zeitung” cui Kracauer collaborava). Ma tutto va storto. Vive in un Paese alla canna del gas, eppure il suo giornale gli fa seguire ridicoli congressi politici autoreferenziali e lo costringe a relazionare sui salotti borghesi. Assistiamo a una parata di rivoluzionari da salotto, insidiosi filofascisti, preti, comunisti, banchieri, attori e uomini di cultura che “vegetano senza coscienza”. Pochi gli spiriti elevati, e tutti con tare significative: la signora Bonnet, chiaro simbolo dell’idealismo da “anime belle”, è rifulgente, ma volatile; il disincantato correttore Lawatsch vive isolato; il comunista Neubert è serio, conseguente, ma troppo dogmatico. Bagliori troppo tenui per quel buio labirinto umano che tutt’intorno a lui prende forma dalle continue giravolte dell’opportunismo e dell’ipocrisia. “La classe dirigente”, denuncerà Georg al capolinea della crudele sua galleria di ritratti grotteschi, “fa pietà. Vive all’oscuro di tutto. È capace solo di stordirsi. Con l’interesse sociale, con i viaggi, l’amore, le canzonette. E non le basta stordire se stessa, stordisce anche le sue vittime”. Sia che assista all’interminabile banchetto dei borghesi radicali (“la compassione che sentivano per gli affamati sembrava renderli sempre più famelici”), sia che scopra nel figlio di pacifisti “un tanghero bellicoso” sebbene loro, cercando di forgiarlo da perfetto progressista, non l’abbiano nemmeno fatto giocare con i soldatini, sia che la sua autonomia intellettuale sia umiliata dall’opportunismo del suo giornale al cospetto del potere finanziario e politico, Georg tocca di continuo con mano la “spaventosa inerzia che regna tra gli uomini”, e che rende inutile ogni progetto di riforma o rivoluzione.
Senza più l’amato compagno Fred, il quale si trasferisce negli Stati Uniti a sguazzare in un mondo materialista e frenetico, il Testimone sarà progressivamente avvolto da un lancinante senso di vuoto (leit-motiv del testo) e da una solitudine “pura e intangibile come la sera attraverso cui egli va alla deriva chiuso in se stesso”, mitigata, se non altro, da un senso di liberazione.
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