Autore: Valeria Luiselli
Opera: Archivio dei bambini perduti (titolo originale: Lost Children Archive)
Anno: 2019 (ed. messicana: 2016)
Traduzione dall’inglese: Tommaso Pincio (2019)
Ho sentito parlare di questo volume per la prima volta da John Freeman, in una conferenza che il brillante fondatore della rivista “Freeman’s” tenne qui a Torino. Osservava come oggi siano le autrici, più che gli autori, a portare sugli scaffali le opere più audaci e sostanziose. Manifestava, nello specifico, una fervida ammirazione per Valeria Luiselli, scrittrice di origini italiane nata nel 1983 a Città del Messico, autrice di questo “Archivio”, j’accuse per certi versi fin troppo letterario, ma imperdibile.
Che cosa denuncia? In breve, la politica dei rimpatri accelerati e dei tempi abbreviati di richiesta d’asilo portata innanzi contro i latinos da Obama e rafforzata da Trump, che la Luiselli in un’intervista a “Robinson” definì uno “psicopatico”.
L’autrice, che ha alle spalle altre apprezzate opere narrative (“Volti nella folla”, “La storia dei miei denti”) e saggi (“Carte false”, “Dimmi come va a finire”), espone in buona parte usando la prima persona. Il testo non è però autobiografico, pur essendo stato concepito a partire dal 2015, dopo l’esperienza in qualità di interprete volontaria che fece al Tribunale dell’Immigrazione di New York.
Nel volume, varie traiettorie narrative si incrociano. Mentre il marito dell’io narrante cerca gli echi delle storie che furono, affascinando i due bambini con le gesta di Geronimo, sua moglie affianca alla piccola epopea familiare il racconto in prima persona della propria ricerca dei bambini dispersi nel deserto. Figure che non restano un oggetto evocato: si materializzeranno in algide schede mortuarie. Non solo. Delle emblematiche polaroid occuperanno un’intera parte di questa quȇte sospesa sul discrimine fra il caos – gli ottantamila bimbi mal assistiti e mal interrogati alla frontiera – e un ordine che spesso si rivela essere un miraggio, nel quadro di una generale analogia fra migrazione e discesa agli inferi, come spiegherà l’autrice.
Il caos è la cifra infernale del contesto di frontiera. “Tutto quello che vedo con il senno di poi”, leggiamo, “sono il caos della Storia che si ripete di continuo, che viene reinscenata, reinterpretata, e il mondo, il suo cuore incasinato che palpita sotto di noi, fallendo, combinando pasticci a ripetizione mentre ruota attorno al sole attorcigliandosi su se stesso. E in mezzo a tutto ciò, tribù, famiglie, persone, cose bellissime che vanno in pezzi, macerie, polvere, cancellazione.”
In linea con questo approccio antilineare, la narrazione, lungo il corpus della parte riguardante il viaggio di ricerca, è costituita da numerosi capitoletti, ciascuno dotato di un titolo portatore di senso; da una ricca manciata di potenti Elegie dei bambini perduti; da brevi excursus in cui si dimostra la continuità fra la presunta “emergenza migratoria” e il bellicoso passato dei bianchi d’America nei loro rapporti con gli indiani; da significativi elenchi di oggetti contenuti nelle scatole che i membri della famiglia portano con sé; da una lunga sezione con al centro la voce del maggiore dei due figli, in un flusso di coscienza che porta alla luce potenti sprazzi visionari.
Al disotto di questo magma ribollente si colloca il grande tema che conferisce al libro il suo respiro letterario, quello della comprensione della storia: essa richiede “una messa in scena del passato, rappresentato nelle sue piccole ramificazioni esterne e spesso terrificanti possibilità”. Di qui la necessità narrativa dei racconti sugli Apache.
Chi volesse leggersi un volume d’assalto intorno a queste tematiche, molto ben scritto e ricco di informazioni, può cimentarsi con “Solo un fiume a separarci”, di Francisco Cantù, memoir di un ex agente della polizia di frontiera. Ma fra i due è il testo della Luiselli che sarà, con ogni probabilità, consegnato agli annali.
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