Autore: William Styron
Titolo: Un’oscurità trasparente (titolo originale: Darkness Visible: A Memoir of Madness)
Anno: 1990
Traduzione dall’inglese: Raoul Venturi (2016, Oscar Mondadori)
È difficile immaginare un memoir più sincero e disarmante di questo: vediamo infatti l’autore delle “Confessioni di Nat Turner” (premio Pulitzer 1967), de “La scelta di Sophie” (1979) e di altre importanti opere affrontare, in chiave intima e personale, il tema delicatissimo della depressione.
Il breve testo deriva da un intervento che William Styron (1925-2006) tenne a un simposio sulla depressione presso la “Johns Hopkins School of Medicine”. Sul piano autobiografico prende avvio da un episodio che lo riguardò direttamente (del resto, egli non fece mai mistero di questo suo tragico problema); sul piano culturale, dalla figura di Camus e dalle riflessioni di quest’ultimo sul suicidio, tentazione molto comune fra chi sia colpito da depressione. Per chiarirlo, Styron ripercorre una serie di storie tristi e significative, ossia le diverse vicende di Virginia Woolf, di Primo Levi e degli sposi Romain Gary (lo scrittore) e Jean Seberg (l’attrice), questi ultimi entrambi suicidi (lei aveva lasciato un biglietto: “Forgive me. I can no longer live with my nerves”), come pure i meno limpidi casi dell’attivista Abbie Hoffman e del poeta Randall Jarrell.
Styron si domanda però quale sia la natura profonda della depressione, al di là del suo profilo strettamente biochimico. Certo, per i più, il suo effetto è quello di “una morsa simile all’annegamento o al soffocamento”. Concresce su se stessa a partire, sembrerebbe, da un acuto, sebbene indistinto, senso di perdita (spesso originato dalla morte molto prematura di un genitore). Tale senso di perdita, in presenza di non meglio definiti fattori scatenanti, può nel tempo determinare in un soggetto l’annullamento d’ogni prospettiva di futuro. Da qui si genera quella che Styron chiama via via, in pagine toccanti, “tempesta di tenebre”, “orrore grigio e brumoso”, “opaca malinconia”, “angoscia soffocante”: la depressione.
Questo “stato d’animo plumbeo e velenoso color verderame” appare però quasi impossibile a definirsi con precisione da un punto di vista generale, anche perché contraddistinto da una sterminata varietà di declinazioni individuali. Impossibile, quindi, sia spiegare con esattezza che cos’è la depressione, sia, di conseguenza, tratteggiarne un modello di massima. Essa è “una sensazione simile al vero e proprio dolore, e tuttavia diversa in modo indescrivibile”, dice Styron, il quale si ricollega perciò al problema dell’ineffabilità, che da Dante in poi ha avuto una lunga storia letteraria. E non solo nella descrizione miltoniana dell’inferno, da cui deriva il titolo originale (mal tradotto in italiano: meglio sarebbe stato “Un’oscurità palpabile”) di questo memoir (“No light; but rather darkness visible…”), ma ancor più nella “selva oscura” lo scrittore americano riscontra l’immagine più efficace per evocare questa enigmatica condizione della mente. Tuttavia, ed ecco il bagliore che illumina questo cupo libretto, in Dante c’è anche la fine del viaggio abissale: nell’uscita dall’inferno a “riveder le stelle” non si può anche cogliere, seppur trasposta dal versante morale a quello psichico, la più incisiva raffigurazione poetica della vittoria sui propri demoni?
La depressione in sé e per sé non è dunque la morte, né la impone quale unica via d’uscita, perché essa “non è l’annullamento dell’anima”. Da qualche parte, nei recessi remoti dell’animo umano, una soluzione per ciascun caso esiste, ed è già stata da molti trovata (fra questi, l’autore stesso e anche Leonard Cohen), così come l’umanità, nel suo insieme, ha sempre saputo rinascere dopo i periodi meno felici.
Daniele Rocca