Autore: Witold Gombrowicz
Opera: Cosmo (titolo originale: Kosmos)
Anno: 1965
Traduzione: Francesco Cataluccio e Donatella Tozzetti (1990)
Fra i numerosi grandi artisti polacchi del Novecento, uno dei meno imbrigliabili nelle consuete categorie è Witold Gombrowicz (1904-1969). Oggi è noto in particolare per i diari (“Kronos”), riediti da poco. Ma davvero tutta la sua opera, dal dirompente “Ferdydurke” (primo romanzo: 1937) a “Trans-Atlantico” a questo “Cosmo”, senza dimenticare “Pornografia” e il provocatorio “Corso di filosofia in sei ore e un quarto”, è geniale.
Sul piano stilistico, è un autore che ricorda Céline o Philip Roth, ma possiede più immaginazione. Inoltre la sua visione del mondo, presentata in chiave essenzialmente umoristica, è più cupa. Negli ultimi anni, Gombrowicz dichiarò di vedere “Cosmo” – scritto fra Buenos Aires e Vance (1961-64) e da molti ritenuto il suo capolavoro – come “un qualcosa di nero, una nera ribollente corrente piena di gorghi, di arresti, di ristagni (…) e un uomo che la fissa, tentando di decifrarla e venendone rapito”, quello stesso magma definito in queste pagine “il lusso del caos”, rispecchiamento crudo e sincero del reale. La sola via possibile per affrontarlo: un “romanzo sulla formazione della realtà” costruito come un giallo, una genealogia della percezione del caos e una fenomenologia della coscienza nello sforzo di configurarlo in un ordine.
Come avviare una storia di questo respiro?
Gombrowicz scelse di farlo partendo da un’osservazione minima e casuale. Quisquilie. E anomalie fra l’una e l’altra. Che l’io narrante rileva un giorno in un luogo di villeggiatura. Sono distanti, eppur destinate a congiungersi: un passero impiccato; l’associazione fra due bocche femminili. “Questi due problemi”, spiegava in seguito l’autore, “reclameranno un senso. L’uno penetra l’altro in una tensione verso la totalità”.
Messa così, la detection, condotta dal protagonista in parte con l’amico Fucsio, sembrerebbe votata allo scacco, e il racconto alla noia. Però una scrittura di livello eccelso impedisce al testo di perder tono, mentre molteplici registri – il grottesco, il comico, il tragico, il non sense, l’oralità, l’onirico, il visionario – sono fusi nello strabiliante caleidoscopio narrativo di quello che nemmeno si può considerare un romanzo tout court. “È difficile”, ammetterà l’io narrante alla fine, giungendo a saldarsi con l’autore, “definire storia questo continuo… addensarsi e sfaldarsi degli elementi”.
Grazie proprio all’inventiva, all’alternanza dei registri e al rifiuto della forma-romanzo, come pure della forma-racconto, questa riflessione sulle “infinite combinazioni” fra l’una e l’altra particella del reale alla ricerca di un senso mantiene intatti ritmo e leggerezza anche quando assume i connotati di un ossessivo scandaglio fra le pieghe di quanto circonda l’uomo.
Con tutte le difficoltà del caso.
È pensabile, si chiede l’io narrante, “che nulla mai possa esser espresso realmente, restituito nel suo divenire anonimo, che nessuno sia mai capace di esprimere il balbettio dell’istante nascente?”: forse ciò accade perché, nei labirinti del cosmo, “si possono veramente guardare soltanto gli oggetti”. Ma allora, istituendo le opportune connessioni, dal “caos sgraziato dei dettagli” potremo far emergere una “forma maestosa” in cui essi siano finalmente ricomposti nel loro “movimento immobile”, in virtù della “viscosità con cui le cose si incollano le une alle altre”. Questo anche se “ogni oggetto è uno sciame inesauribile” perduto in mezzo a “grandi giacimenti di invisibile, nidi di inesistenza, rocche di cecità e di mutismo”. Il corpo a corpo fra conoscibile e inconoscibile, caos e ordine non potrebbe essere espresso in modo più efficace ed evocativo.
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