Oltre a Uwe Johnson, autore de “I giorni e gli anni”, e a Thomas Mann (“Giuseppe e i suoi fratelli”), un altro grande produsse una tetralogia: Yukio Mishima (1925-1970), il cui “Mare della Fertilità” (il riferimento è alla regione lunare) venne definito dalla “National Review”, seppur con paragone fuorviante, “un’eredità letteraria di caratura paragonabile a quella lasciata da Proust”. Fu il culmine della sua parabola, della quale l’introspettivo “Confessioni di una maschera” (1949) era stato il primo sussulto di rilievo.
Mishima fu un divo, caratterizzato da un estetismo di sapore dannunziano. Ed esibì spavaldamente le proprie contraddizioni. Conosceva bene letteratura e moda europee, ma al tempo stesso, deplorando l’occidentalizzazione del Giappone, fondò una legione per restituirlo agli antichi splendori; fra i suoi manifesti ideologici, si annoverano vari scritti sul bushido, l’ascetismo guerriero dei samurai. Pur sposato e padre di due figli, divenne un’icona gay (celebre la foto che lo ritrae, culturista, nella posa di San Sebastiano al martirio) e coltivò relazioni omosessuali in seguito molto chiacchierate.
Niente da stupirsi se destò la curiosità e l’interesse, fra gli altri, di Alberto Moravia (che andò a intervistarlo) e Marguerite Yourcenar (suo il saggio “Yukio Mishima, o La visione del vuoto”): anche perché, sul piano artistico, opere come “Colori proibiti” (1953) – con al centro proprio il tema dell’omosessualità – e l’impressionante “Il padiglione d’oro” (1956), di taglio filosofico, spiccavano su scala planetaria.
L’ambizione politica di Mishima giunse a perfetta maturazione in parallelo con questa tetralogia, la cui ultima pagina è datata 25 novembre 1970: quel giorno lo scrittore, in divisa militare, radunato uno stuolo di seguaci legionari, occupò la sede del Ministero della Difesa, quindi, dalla balconata, tenne un discorso per un nugolo di curiosi che lo avevano notato dall’antistante piazza: esortava a restaurare il vecchio Giappone. Vistosi inascoltato, rientrò e fece seppuku. Sotto choc, il suo compagno non riuscì poi a decapitarlo nel modo più rapido, e Mishima dovette morire fra atroci sofferenze. Forse mai come in quei momenti il sangue e l’inchiostro si trovarono congiunti in una importante figura di intellettuale, e questo mentre ai quattro angoli del mondo si moltiplicavano gli engagés da salotto.
La tetralogia cui Mishima aveva appena posto fine era la ricostruzione della vita di un uomo nella decadenza recente del suo Paese. “Neve di primavera”, “A briglia sciolta”, “Il tempio dell’alba” e “La decomposizione dell’angelo” sono, nell’ordine, i volumi di cui si compone, e che raccomandiamo di leggere in traduzione dal giapponese (circolano molte traduzioni dall’inglese).
Nel primo romanzo, lo spirito del Giappone è personificato dalla dolce Satoko, la quale infine si sottrae all’amore e al mondo chiudendosi in clausura. Protagonista è tuttavia, fin dalle prime pagine, il giovane Honda, testimone-osservatore. Da ragazzo lo sospingono ideali la cui realizzazione gli parrebbe equivalente a “stringere in pugno la chiave della vita” (I), ma la sua miglior stagione avrà una fine traumatica: con la precoce morte dell’amico Kyoaki, suo unico vero interlocutore. In “A briglia sciolta”, l’ormai adulto Honda, in qualità di giudice, crederà di trovarne in un altro giovane, di nome Isao, la reincarnazione. Un senso di mistero andrà avvolgendo la sua vita, pur nel confronto, ben concreto, con la realtà del sovversivismo politico reazionario e fascisteggiante degli anni Trenta.
L’amore di Honda per la bella Ying Chan, “nero fior di loto sbocciato nel fangoso fluire dell’esistenza”, anch’essa coinvolta nel mistero delle rinascite di Kyoaki, attraversa “Il tempio dell’alba”, ambientato fra Thailandia e India, ricco di rigorose digressioni sul buddhismo, mentre nell’ultimo libro Honda è ormai un anziano, dedito alla morbosa pratica del voyeurismo. Adotta il giovane Toru, aggrappandovisi come a una nuova reincarnazione di Kyoaki, ma non ne sarà amato; come un’ombra emersa dal nulla, Toru è simile all’angelo del cui avvicinarsi alla morte il buddhismo individua cinque successivi segni di decomposizione. Nell’assistere a tale enigmatico processo, di chiare suggestioni allegoriche, Honda comprenderà che “la memoria è uno specchio capriccioso”. Dopo un incontro che da lungo tempo agognava, s’imbatterà in una devastante verità, che avrà il gusto del più amaro sigillo sulla sua vita.
Vero, Mishima tende all’enfasi. Ma le ricostruzioni ambientali, filosofiche e politiche, le analisi psicologiche, le descrizioni degli elementi della natura, lo sviluppo dei rapporti vengono sempre accompagnati e sorretti in tutti e quattro i romanzi da una finezza immaginativa e da una ricchezza di soluzioni stilistiche molto rare nel panorama della letteratura novecentesca.