Una fredda ma soleggiata mattina di fine novembre, in compagnia di Stefano e Giulia, due miei cari amici e compagni di “itinerari artistici”, allontanandoci dal frastuono assordante della città, siamo partiti per una gita nella bella cittadina di Saluzzo, di cui tanto il nostro professore ci aveva parlato e che desideravamo vedere e conoscere. Nella strada che conduce la città di Torino alla cittadina di Saluzzo, Stefano ci ha proposto di visitare l’Abbazia di Staffarda, situata, appunto, a Staffarda, una frazione del comune di Revello, in provincia di Cuneo. Io – me ne vergogno un po’ – non la conoscevo, ma la proposta di recarci a visitare un luogo sacro mi affascinò all’istante e dunque io e Giulia annuimmo volentieri.
Dopo un’ora circa di auto da Torino, scendiamo dall’automobile e ci incamminiamo verso l’ingresso dell’Abbazia. Sembra quasi di immergerci in un altro mondo. Passa al nostro fianco un papà con una bella bambina, la più giovane abitante di Revello. Ad accoglierci nella piacevolmente riscaldata biglietteria è una gentile signora piemontese, che nel momento in cui entriamo è intenta a colloquiare in dialetto locale con alcune donne del posto. Nella tarda mattinata, comincia il nostro itinerario storico-artistico attraverso l’Abbazia, a noi meravigliosamente illustrato dalla signora stessa, che dimostra grande affetto nei confronti del monastero, come se ella stessa ne fosse fondatrice e da una dettagliata autoguida, che spiega, luogo per luogo, le diverse parti che formano l’Abbazia.
La storia
Una bolla pontificia, datata 28 marzo 1144, rende noto il promotore della fondazione del monastero, il marchese Manfredo I di Saluzzo (ante 1123 – Saluzzo, 1175), figlio primogenito del marchese Bonifacio del Vasto e d’Agnese di Saluzzo, appartenente a una nobile famiglia ligure-piemontese di origine aleramica.
Il ritratto del marchese Manfredo I di Saluzzo si riconosce nella raffigurazione di Goffredo di Buglione nel ciclo di affreschi della Sala Baronale nel Castello della Manta, presso Saluzzo.
A partire dal 1091, in seguito alla morte della famosa zia materna Adelaide di Susa e in seguito alla conseguente estinzione della dinastia dei marchesi arduinici, Bonifacio del Vasto, padre di Manfredo, alleandosi con alcuni ricchi feudatari e con il vescovo di Torino, Mainardo, estese la sua egemonia sugli ampi territori arduinici fra Alba, Saluzzo e Albenga. In questa sua espansione dovette però scontrarsi con Umberto II di Savoia, Conte di Moriana, ma fu ben presto definito un accordo tra le due famiglie, ponendo un netto confine fra Staffarda e Carmagnola, lungo la linea del Po.
E lungo codesta linea, il figlio di Bonifacio del Vasto, il Marchese di Saluzzo, promosse la fondazione del monastero di Staffarda, riconoscendo in quest’istituzione ecclesiastica una comunità di preghiera per la salvezza post mortem dell’intera famiglia e un luogo attorno a cui costruire l’identità dinastica – si ricordi infatti che i marchesi trovavano sepoltura proprio nelle abbazie da loro fondate.
Donatari dell’Abbazia furono i monaci dell’Ordine cistercense, proveniente dall’abbazia ligure di Tiglieto, figlia della francese La Ferté. La Silva di Staffarda, la nemus Stapharde, ambiente fitto di vegetazione, acquitrinoso e paludoso, rispondeva in maniera perfetta agli ideali dei monaci cistercensi, che si dedicarono fin da subito alla bonifica e colonizzazione del territorio circostante l’Abbazia, trasformando un luogo inospitale in una fiorentissima azienda agricola con fiere e mercati, che contribuì allo sviluppo della civiltà agricola piemontese, che apprese nuove conoscenze in ambito tecnico-agricolo.
L’Abbazia ricevette riconoscimenti papali e imperiali, ma verso la metà del Quattrocento, cominciò a perdere il suo ruolo di fulcro commerciale ed economico dell’area circostante e nel 1463 fu data in Commenda.
La sanguinosa battaglia di Staffarda, combattuta su questo territorio il 31 luglio 1690 tra i piemontesi di Vittorio Amedeo II di Savoia e i francesi del generale Catinat, arrecò gravi danni alla struttura architettonica del monastero, soprattutto all’aria dei chiostri e dei refettori. Nel corso del XVIII secolo, per volontà del re Vittorio Amedeo II di Savoia, così come ricorda una lapide ubicata sulla controfacciata all’interno della chiesa, si tennero alcuni interventi di restauro, che andarono però inevitabilmente ad alterare le forme architettoniche originali.
Nel 1750, con una bolla del Papa Benedetto XIV, l’Abbazia passò all’Ordine dei Santi Mauriziano e Lazzaro, creato dai duchi di Savoia.
La storia dell’arte
La nostra visita comincia nel chiostro in stile gotico, gravemente danneggiato nella battaglia sopracitata del 1690 che causò la distruzione del braccio meridionale e parte di quello orientale.
Il chiostro si presenta oggi nella forma di un doppio quadrato, con porticati aperti ad arco su doppie file di colonnine con caratteristici capitelli istoriati. Al centro il giardino, ancora oggi accuratamente coltivato.
Si prosegue nel Refettorio dei Monaci, caratterizzato da pilastri e volte a crociera ricostruiti dopo i danneggiamenti conseguenti la battaglia di Staffarda. Il refettorio, unico locale riscaldato, era adibito al consumo del frugale pasto monastico o all’ascolto dei sermoni. Si può infatti ancora notare una scaletta scavata nella muratura, dalla quale il Priore saliva per accedere al pulpito. Sulla parete verso oriente, si trova un residuo affresco rappresentante un’Ultima Cena: dettaglio pittorico che ci ricorda quanto questo locali dovessero essere belli nella loro sobrietà ed essenzialità.
A sud si aprono il Laboratorio, luogo di lavoro – ricordiamoci la centralità del lavoro manuale nella regola fondata da San Benedetto – la Sala Capitolare, suddivisa in nove campate da quattro colonne centrali che sostengono le volte a crociera, dotate di due leggiadre trifore ogivali che si aprono ai lati dell’ingresso, lo Scriptorium e l’ampia Foresteria, caratterizzata da due navate e da quattro colonne a conci di pietra.
Il laboratorio dei monaci: i pilastri quadrangolari sono stati aggiunti nell’Ottocento per motivi di sicurezza.
Interno del Refettorio e trifora ogivale della Sala Capitolare
Dal chiostro si accede alla chiesa. Esternamente, essa presenta, nella parte inferiore, un esonartece trecentesco e nella parte superiore una facciata rinascimentale con decorazioni prospettiche.
L’interno, in stile romanico-gotico, è suddiviso in tre navate, che terminano in altrettante absidi semicircolari con i mattoni a vista. Originariamente, secondo i dettami della rigida regola cistercense, la decorazione si caratterizzava per l’estrema semplicità ed essenzialità: gli unici elementi esornativi erano infatti le chiavi di volta della quarta e della quinta campata della navata centrale, raffiguranti l’Agnus Dei e un angelo con le braccia conserte.
Risalgono invece ai secoli seguenti il pulpito tardogotico, una Crocifissione con san Giovanni e la Vergine in stile gotico-alemanno scolpita in legno e datata circa al 1530, il polittico o macchina d’altare di Pascale Oddone, capolavoro dell’arte ebanistica, realizzato tra il 1531 e il 1533 e l’altare cinquecentesco dell’abside sinistra, con ancona lignea del 1525, scolpita con eleganti candelabri rinascimentali dallo scultore Agostino Nigra di Cavallermaggiore.
Di grande fascino è per me il Crocifisso ligneo: a destra, un giovane e riccioluto San Giovanni Evangelista con lo sguardo in su verso il Cristo; a sinistra la madre, Maria in preghiera, il volto dolorante e sofferente; al centro il Cristo crocifisso, le cui ferite di sangue sono una nota di dolore umano.
Usciti da questo complesso monastico, colmi della bellezza di cui i luoghi sacri sono portatori, ci accoglie l’aria fresca di montagna, così diversa da quella della città. Guardo Stefano e lo ringrazio di averci portato in questo luogo.